martedì 25 ottobre 2016

Paul Beatty conquista The Man Booker Prize con "Lo schiavista"

Il Messaggero, sezione Macro, pag. 22
9 ottobre 2016

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

Paul Beatty, classe 1962, radici losangeline, con Lo schiavista (Fazi Editore, 369 pagine, 18.50 euro, traduzione ottima di Silvia Castoldi), appena entrato nella short list del Man Booker Prize dopo aver vinto il National Book Critics Circle Award 2015, guarda al proprio paese, gli pone molte domande e lo dissacra, mettendolo allo specchio, senza coltivare la pretesa di ricevere risposte esaurienti. Che cos'è il post racial? Al tramonto silenzioso della presidenza Obama, qual è l'esito della scelta di far passare sotto traccia la questione razziale? Beatty l'affronta col coraggio della satira, che è anche mezzo per impastare le mani nel dolore, interrogando, stuzzicando una storia che ammira, quella del Movimento per i diritti civili, e il tempo presente.

Il prologo è così denso da sembrare un romanzo nel romanzo nel quale percepiamo le urgenze dell'autore. Il narratore, il venduto (The Sellout, il titolo originale dell'opera), nell'incipit potente si fa carico del pregiudizio storicizzato: «So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente». Me, soprannominato Bonbon, ci porta davanti alla Corte Suprema col caso 09-2606: lui contro gli Stati Uniti d'America. Il giudice nero è costernato: perché ai giorni nostri un afroamericano viola i principi possedendo uno schiavo e sostiene che la segregazione riunisca le persone di una comunità in crisi di identità?

L'imputato è originario di Dickens, un ghetto nella periferia sud di Los Angeles a immagine e somiglianza della reale Compton. Rinnega l'educazione impartita dal padre, sociologo controverso, ucciso da un proiettile sparato da un poliziotto, così simile alla feroce banalità delle dinamiche riportate dalla cronaca. A qualche anno di distanza dal delitto il sobborgo scompare dalle mappe. Me vede crollare il proprio mondo, ma non è solo. Anche il vecchio Hominy Jenkins, reazionario razziale sui generis, l'ultimo sopravvissuto delle Simpatiche Canaglie, necessita di trovare un appiglio nel naufragio dell'identità: che cosa vuol dire essere nero? E si offre come schiavo.

Segregare la scuola, il trasporto pubblico, perché la segregazione razziale avrebbe costituito la chiave per riportare in vita Dickens. Beatty ci costringe a fare i conti col fallimento dell'utopia, con la contraddizione insita nell'integrazione. E più intimamente con l'assenza e la morte. Lo schiavista è un modo onesto di tornare dentro a una casa scomoda, soprattutto davanti all'insegna la legge è uguale per tutti.

Beatty non si considera uno scrittore satirico, e definisce a ragione l'etichetta come un limite per il romanzo. Dopo aver spalancato le porte col prologo, lo scrittore alza freneticamente il ritmo e si fatica quasi a stargli dietro, non fosse per la qualità della scrittura che mescola sapientemente i registri linguistici. Col potere della fantasia e dell'umorismo si emancipa dai lacci della classica denuncia sociale, andando ben più in profondità negli aspetti più violenti e assurdi del proprio paese.




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