mercoledì 12 ottobre 2016

Vera e Franca viva per sempre

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di Gabriele Santoro

La voce di Vera Vigevani, milanese classe 1928, è dolce, decisa e squillante come se fosse animata dalla gioventù coraggiosa di sua figlia, Franca Jarach. Nel 1939 Vera fu costretta dalle leggi razziali ad abbandonare insieme ai genitori l’Italia destinazione Argentina: «Ho compiuto undici anni sulla nave – racconta – . Ero una bambina, ma quelle cose non si dimenticano come quando mi hanno cacciata da scuola in quanto ebrea. È stata la prima ingiustizia che ho conosciuto nella mia vita. Poco più piccola mio padre, che mi aveva spiegato cosa volesse dire fare l’avvocato, mi portò davanti alla facciata del tribunale cittadino e mi parlò della giustizia. Ho sempre creduto fosse una cosa meravigliosa».

Vera, donna colta e determinata che ha lavorato per quarant’anni nella redazione cultura dell’Ansa a Buenos Aires, personifica il Novecento con i suoi drammi e l’esigenza di testimoniare. Sua figlia Franca, vittima della dittatura civico militare argentina, scomparve a diciott’anni il 25 giugno 1976 e di lei non si seppe più nulla fino a pochi anni fa, quando una donna, Marta Alvarez, sopravvissuta al campo di concentramento dell’Escuela de Mecanica de la Armada, le ha raccontato tutto grazie alle ricerche straordinarie delle squadre di antropologi forensi argentini. Franca aveva aderito alla sinistra peronista, che poi si oppose alla dittatura: studentessa dell’ultimo anno delle secondarie, si iscrisse alla Unión de Estudiantes Secundarios (Ues); in seguito dopo la maturità conseguita volle provare il mestiere di grafica e militò nella Juventud Trabajadora Peronista (Jtp).

Franca Jarach

Alvarez era incinta quando fu arrestata e, come accadde ad altre detenute, il figlio nacque durante la prigionia. Ma fu affidato, tre mesi dopo il parto, alla nonna, mentre nella maggior parte dei casi i bambini vennero strappati alle rispettive famiglie. All’Esma visse tutto l’orrore del Salone delle feste del Casino de Oficiales (la casa degli ufficiali), trasformato nel quartier generale dei militari che in quello stesso edificio vivevano e torturavano. «Verso Marta Alvarez nutro una grande riconoscenza, perché grazie a lei ho scoperto il destino di mia figlia – dice Vera –. Non c’è niente di peggio del non sapere nulla. La maggior parte delle famiglie dei desaparecidos ancora non sanno. Dopo molti anni è stata brava, ha cominciato ad andare dagli antropologi forensi e prosegue a collaborare. A un certo punto ho potuto prendere contatto con lei attraverso gli antropologi e dunque mi ha raccontato la verità. Mia figlia è durata meno di un mese nella prigione dell’Esma, vittima poi dei voli della morte».

A Vera Vigevani, che appartiene al movimento delle Madres de Plaza de Mayo fin dai primi mesi della sua fondazione e ha successivamente aderito alla Linea Fundadora, piace definirsi una militante della memoria. E anche in Italia ha svolto questo prezioso lavoro di ricostruzione storica sulla sorte del nonno Ettore Camerino che restò in Italia, fu deportato e morì ad Auschwitz.

È notizia di pochi giorni fa il ritrovamento del centoventunesimo figlio di desaparecidos, Maximiliano, che dopo quarant’anni ha potuto abbracciare la famiglia biologica, a casa della sorella della madre, Alba Lanzillotto, da sempre impegnata nell’associazione delle Madres de Plaza de Mayo. Alla conferenza stampa ha partecipato il fratello Ramiro Menna, che era stato affidato a un’altra sorella, Quela. Ana Maria fu arrestata all’ottavo mese di gravidanza insieme al compagno Domenico Mena, emigrato alla tenerissima età di cinque anni da Chieti. Mena, guevarista, soprannominato el Gringo, è stato uno dei fondatori dell’Esercito rivoluzionario del popolo decimato dopo il golpe del ’76. In seguito a una probabile delazione finì arrestato insieme a tutto il vertice dell’organizzazione e deportato nel campo di concentramento dentro alla base militare Campo de Mayo, situata vicino al luogo del fermo.

Lo scorso lunedì la Commissione Nazionale per l’identità (Conadi) ha comunicato all’interessato gli esiti dei test genetici ai quali aveva accettato di sottoporsi tre mesi fa, donando un campione del proprio sangue al Banco Nacional de Datos Genéticos, dopo essere stato avvicinato. I dubbi e l’indagine si sono mossi dal certificato di nascita falso, vergato dalla dottoressa Juana Franicevich, la cui firma era già apparsa in altri due casi di ritrovamenti. Lui ha mandato un messaggio WhatsApp alla zia ritrovata, rompendo il ghiaccio, e ha già avuto un confronto difficile con i genitori che si professavano come i suoi naturali. «La sua vita è stata investita da una bufera, perché mai aveva sospettato di essere figlio di desaparecidos. A me, nel giro di quattro giorni, si è rivelato ciò che ho cercato per quarant’anni», ha dichiarato Alba.

È una storia tutta da scrivere come centinaia di altre e, come sottolinea Vigevani, il tempo stringe.

Il murale con Franca, al suo fianco Vera Vigevani

Vera, in che modo si può essere madre di una ragazza desaparecida?
«L’immaginazione è utile a tante cose. Nella mia vita serve ad avere un confronto di idee, di pensieri con Franca. Penso a quello che lei avrebbe detto, alle decisioni che avrebbe assunto in determinate situazioni. È una specie di dialogo immaginario. Conoscendola a fondo posso stabilire uno scambio che in realtà è con me stessa. Non è facile capirlo, però questo esiste in tante situazioni della vita. Ho sempre lavorato nella stanza di Franca, è l’ambito dove spesso ho svolto le mie giornate, dove sono cresciuta, ho imparato e cercato di dare qualcosa agli altri. Nella stanza c’è una fotografia di Franca, scattata dal suo secondo fidanzato poco prima del sequestro, meno male che ne ha avuti. Ha un sorriso dolce che la rappresenta. Non puoi colmare l’assenza, ma di fatto sono una madre. Con le Madres de Plaza de Mayo abbiamo vissuto la realtà di una maternità ampliata, collettiva. C’è stata una crescita particolare insieme alle altre madri con quello che con l’andare degli anni è accaduto a noi stesse. Prima abbiamo cercato di salvare i nostri figli, poi siamo diventate, e questo ci ha portato ai giorni nostri, una specie di forza morale, etica dentro alla società e al paese».

La passione per la politica e l’impegno sociale le furono trasmesse dalla famiglia o erano inevitabili nell’Argentina degli Anni Settanta?
«Franca, nipotina di avvocati, ha ereditato dalla famiglia il senso della giustizia. Ha ascoltato fin da piccola le storie di persecuzione che avevano già segnato la nostra vicenda familiare. Lei, figlia unica, bravissima, sveglia, piena di attenzione ha condiviso molto della mia vita insieme al padre Jorge Jarach: le nostre passioni per il cinema, il teatro, la letteratura e la montagna. Buona parte di quel che Franca era e desiderava diventare, dare al prossimo, alla società argentina derivava dal contesto familiare. Per il resto fu tutto merito del suo impegno e delle circostanze di quella gioventù animata dall’ideale di giustizia sociale e dunque dalla necessità dell’eguaglianza».

A che cosa sognava di dedicarsi?
«Lei in particolare, avendo finito la scuola secondaria, aveva scelto di formarsi nel corso che chiameremmo di Scienze dell’educazione. Considerava l’impegno scolastico alla base della trasformazione della società. Non poté cominciare gli studi».

Lei conserva le pagelle di Franca. C’è una curiosità: aveva dieci in tutte le materie, mentre l’unica voce insufficiente risultava la condotta. Perché?
«La sua scuola, il Colegio Nacional de Buenos Aires, è particolare, dipende dall’università che nella sua storia è stata molto politicizzata. A Roma potremmo paragonarla con il Liceo Tasso da dove sono usciti scienziati, politici. A partire dai tredici anni, l’età in cui è entrata al Colegio, ha partecipato alla vita politica della scuola, fu subito eletta delegata della sua classe al Centro degli studenti. Tutti hanno sentito l’influenza della gioventù impegnata su scala mondiale. La scuola secondaria argentina ha la tradizione dei Centri degli studenti che ne caratterizzano la vita interna, in quegli anni più che mai. In Argentina, quando si insediò la dittatura civico militare, tutto ciò si trasformò in una specie di militanza. Lei aveva una coscienza molto critica, priva di fanatismi, quello che auspico nei ragazzi lo possedeva in forma naturale. È stata presa di mira dalle autorità, dunque in condotta era mala, cattiva in virtù del suo impegno. I dirigenti scolastici ormai erano appartenenti, espressione del clima che condusse alla dittatura. Oltre cento studenti del Colegio finirono desaparecidos. Oggi nella scuola c’è un murale che ritrae Franca. Il disegno è collocato tra due premi Nobel e il presidente Pellegrini ex studenti. Sarà il suo Colegio per sempre».

Dove si diplomò Franca?
«Quando cominciarono le repressioni anche nella scuola mantenne i propri impegni, prese parte per esempio a una occupazione della scuola per difendere il suo Preside allontanato e a un’assemblea proibita in quell’epoca. Quindici ragazzi tra cui mia figlia di conseguenza furono espulsi in pieno regime militare e poi riammessi per iniziativa dei genitori. Lei non volle tornare in quel clima di repressione e dette come privatista i suoi esami in un’altra scuola».

Qual è il ricordo delle prime ore dalla sparizione?
«Sono stati momenti di grandissima paura. Dal 25 giugno 1976 tutte le nostre iniziative furono rapidissime. C’erano il desiderio di salvarla e la viscerale necessità di sapere. Le paure erano sempre più crescenti, perché si cominciava a capire cosa stesse accadendo alle persone sequestrate. Eravamo terrorizzati mio marito, io e i tanti amici che erano con noi. Poco prima avevamo proposto a Franca di trasferirsi in Italia per un periodo. Purtroppo tutto questo non è successo. La sentimmo per l’ultima volta al telefono, quindici giorni dopo la scomparsa. La fecero chiamare dalla cabina appositamente costruita dentro all’Escuela de Mecanica de la Armada e registrammo la conversazione. Sul momento fu un sollievo. Vent’anni dopo ho saputo che Franca era durata meno di un mese all’Esma. A luglio entrarono centinaia di prigionieri in quel luogo, e avevano bisogno di spazio. Mio marito è morto nel 1991 senza avere notizia certa sulla sorte della figlia. Con i voli della morte la dittatura civico militare ha sperato di cancellare non solo le persone ma le storie, che non ci fosse maniera di sapere nulla. Non hanno ottenuto il risultato che desideravano. C’è un gesto emblematico che amiamo fare: posare fiori nel Rio de la Plata ripetendo la frase: Trentamil companeros desaparecidos presente ahora y siempre».

Corrisponde al vero che nessuna Ambasciata europea riuscì a trarre in salvo i propri connazionali rapiti?
«Posso dire con certezza che c’è stato un paese, la Svezia, che si è impegnato fortissimamente seppure fosse un solo caso di sparizione, una ragazza diciassettenne che si chiamava Dagmar Hagelin. Il padre si è mosso, il paese l’ha sostenuto insieme alla rappresentanza diplomatica ma purtroppo era già morta. Però hanno cercato di farlo. Tutte le Ambasciate avrebbero dovuto muoversi e disubbidire. Con l’ambasciatore Enrico Carrara, quella italiana è stata connivente e complice».

Bernardino Osio, primo consigliere dell’ambasciata italiana a Buenos Aires dal marzo 1975 al marzo 1978, ha raccontato del senso di impotenza, dell’assenza di risposte da parte delle autorità argentine alla richiesta di notizie dopo le denunce di sparizione. Aggiungendo: «A differenza del Cile il governo italiano non si è mai commosso eccessivamente di quanto succedeva in Argentina, il primo passo ufficiale risale solo al 1979».
«Traduco la risposta in termini presenti e al futuro, perché il nostro impegno come organismi per la tutela dei diritti umani è sempre stato contrassegnato da tre mete: sapere la verità, avere la giustizia e conservare la memoria. Io ne ho una quarta Nunca mas il silenzio. Se vogliamo che non tornino ad accadere queste storie mai più il silenzio che abbiamo patito noi, ma non solo. Ancora oggi la stampa, la diplomazia, i paesi e i rispettivi governi mantengono silenzi colpevoli mentre si consumano le tragedie, dando corso ai propri interessi e non alla solidarietà. Questo Nunca mas vuol dire non essere mai indifferenti, soprattutto se con la conoscenza della storia si intravedono sintomi di ripetizione dei fatti. Muoversi in tempo perché dai prolegomeni non si giunga alla realizzazione delle persecuzioni e dei genocidi».

Quale effetto ebbe il vostro incontro con il Presidente Sandro Pertini?
«Pertini è stato per noi un balsamo, perché ha esternato la propria indignazione. Questa era la sua parola, indignato per quanto stava accadendo in Argentina. Prima, allo stesso tempo e dopo per anni abbiamo avuto il silenzio dell’ambasciata però ci sono anche i giusti, quelli che salvano vite mettendo a rischio la propria».

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