domenica 17 dicembre 2017

Don Winslow e il lato oscuro dell'America

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 21

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

«Jory parla strano, da un po' di tempo».«Parla in modo strano, – la corresse la madre». 
«In che senso?». 
«Non lo so. Di politica. Di come sta cambiando il Paese. Sembra uno di ultradestra».
«Sembra pieno di rabbia, – disse di nuovo Shelly». 
«Un po' mi fa paura».

In questo dialogo Don Winslow ci ricorda che il nemico più insidioso da sconfiggere, l'odio, è spesso dentro di noi, non è un'entità distante e straniera. Il testo citato risale all'inizio degli anni Novanta ed è di estrema attualità come il romanzo da cui è tratto Nevada connection (Einaudi, 364 pagine, 15.50 euro, traduzione di Alfredo Colitto). Jory, figlio dell'America che non si identifica in New York, insieme a un gruppo eterogeneo di sbandati che Winslow assembla e caratterizza sapientemente, è alla ricerca di qualcosa in cui credere, e lo trova nel movimento per la supremazia bianca. Il reverendo C. Wesley Carter, guida spirituale della sedicente Chiesa della Vera identità cristiana, è l'indottrinatore di una milizia di neonazisti, che combattono in nome di Dio e della razza bianca: «Uomini che sentivano sfuggire loro di mano un'America che non era mai esistita».

Il giallo, che non cala mai d'intensità, è ambientato negli anni della presidenza Reagan. Ritroviamo l'agente sotto copertura Neal Carey, di nuovo operativo per conto dell'organizzazione Amici di Famiglia dopo tre anni di confino trascorsi in un monastero buddista in Cina. L'investigatore privato è chiamato a risolvere il caso della scomparsa del piccolo Cody McCall, rapito dal padre dopo la separazione dalla moglie. Le ricerche conducono il lettore in una piccola comunità del Nevada stravolta dal fanatismo della setta razzista, nella quale Carey riesce a infiltrarsi: «La valle non è più la stessa. È infetta». Si è ammalata di due virus letali, l'odio e la paura seminati fra vicini di casa.

Nelle Terre Alte solitarie del Nevada sono tutti bianchi, ma all'orizzonte incombe sempre un nemico, nero o ebreo che sia. Secondo i “Figli di Seth”, legati al reverendo Carter, il governo federale di Washington è manipolato dagli ebrei per la soppressione del vero popolo eletto, lo chiamano Zionist Occupation Government. La dinamica del reclutamento, emersa dopo diversi attentati in Europa, assomiglia a quella del terrorismo di matrice islamista. Carter passa al setaccio le carceri e stimola la radicalizzazione religiosa di uomini persi, attratti da un credo di violenza, da organizzare in cellule militari pronte a colpire. I suprematisti presunti ariani, addestrati e armati come paramilitari, si intestano una Guerra santa in nome dell'America a cui sarebbe stata progressivamente sottratta la purezza: «Siamo bianchi e non abbiamo diritti nel nostro Paese». In una combinazione tossica di razzismo e religione, il pericolo agitato è sempre lo stesso: l'invasione del diverso. Winslow ci riporta agli scenari e alle atmosfere di Assalonne, Assalonne! di William Faulkner, in cui una famiglia dell'alta borghesia del Sud preferisce l'omicidio alla presunta contaminazione razziale. 

Ogni anno Winslow, che vive sul confine californiano col Messico, ama attraversare gli Stati Uniti in macchina insieme alla moglie, avendo un contatto diretto con la strada. E Carey, personaggio protagonista del suo noviziato letterario, si muove dentro a una strofa di Springsteen, cantore delle speranze, delle promesse non mantenute nella realtà tutt'altro che monolitica d'oltreoceano. Ci sono il diritto costituzionale alla ricerca della felicità e il mondo del proletariato marginale bianco. C'è l'operaio springsteeniano di Johnny 99, nato giù nella valle dove fin da giovane ti insegnano a rifare quello che ha fatto tuo padre, che ha perso il lavoro e impugna la pistola. Carey appare immerso nella sceneggiatura di un film di Robert Altman.

L'agente, dotato di fine umorismo, scava dentro il cuore di tenebra violento della provincia americana ed è così libero da non scivolare mai nel pregiudizio. Durante la lettura di Nevada connection, che fa parte del ciclo dei suoi primi noir ora tradotti e pubblicati da Einaudi, si rintracciano molti degli elementi che successivamente hanno consacrato Winslow. Il maestro del poliziesco statunitense, come il miglior romanzo noir, ha la strana virtù di essere più realista della realtà.

giovedì 14 dicembre 2017

I soldi della 'ndrangheta nell'economia. Intervista Antonio Nicaso


di Gabriele Santoro

Il fatturato annuo della ‘ndrangheta ammonterebbe a circa 43 miliardi di euro e per almeno tre quarti questa somma è reinvestita nell’economia legale. Nel saggio Fiumi d’oro (Mondadori, 180 pagine, 18 euro) Antonio Nicaso, giornalista, saggista e docente universitario canadese di origine calabrese, e il magistrato Nicola Gratteri, Procuratore della Repubblica di Catanzaro, raccontano come i soldi del traffico di cocaina siano ormai parte integrante del sistema economico su scala globale.


Come nella pubblicazione precedente, Padrini e padroni, che ricostruiva il farsi classe dirigente della ‘ndrangheta mediante la corruzione e la commistione con la massoneria deviata, le mafie incombenti sono il convitato di pietra della nostra democrazia. Nicaso e Gratteri evidenziano tutti gli ostacoli, a cominciare dalla differenza dei sistemi giuridici, e i ritardi che impediscono un contrasto realmente transazionale del riciclaggio planetario di denaro sporco, che rappresenta il cuore dei rapporti esogeni delle mafie. Una rinnovata, seria ed efficace azione repressiva non può che mirare al mondo dei professionisti, attiguo e sensibile al richiamo dei capitali illegalmente accumulati.

«Dalla stagione dei sequestri non ci siamo più ripresi», dice Gratteri, dando un’immagine precisa della trasformazione stessa della pubblica amministrazione, degli sconvolgimenti economici, del corpo sociale, degli effetti sull’emigrazione e dunque sulla composizione demografica in Calabria. La narrazione parte proprio dal 1945, anno del primo rapimento, per descrivere la costruzione dell’egemonia criminale ‘ndranghetista nel secondo dopoguerra mondiale.

Nicaso, Fiumi d’oro si apre con una riflessione sulla lunga stagione dell’Anonima sequestri calabrese, un’industria che, in trent’anni di riscatti pagati, ha fatto confluire nelle casse della ‘ndrangheta circa ottocento miliardi di lire. Documentate il rapporto complementare tra spesa pubblica e sequestri con la formazione di imprese con capitale misto. Quella dei sequestri di persona della mafia calabrese è una storia ancora tutta da scrivere?
«È una storia che deve essere valutata in funzione degli investimenti della ‘ndrangheta nel traffico internazionale di cocaina. Sono stati i soldi dei sequestri di persona a consentire i primi acquisiti di droga, ma soprattutto gli investimenti in paesi come Germania, Canada e Australia. Inoltre, i sequestri di persona non sono stati soltanto rapimenti pensati e gestiti da pastori per estorcere denaro ai familiari degli ostaggi, ma anche uno strumento per radicarsi lontano dai territori di origine e creare le opportune basi logistiche che oggi fanno della ‘ndrangheta l’organizzazione criminale più radicata al Centro-Nord».

«Toronto sembra una succursale della Locride», scrivete. Nella metropoli canadese sono sette i locali di ‘ndrangheta con centinaia di affiliati. Perché dagli anni Settanta la ‘ndrangheta ha investito i soldi accumulati in Canada e l’ha scelto quale proprio salvadanaio?
«Agli inizi degli anni Duemila, il Canada è stato l’ultimo paese del G7 a porre un limite sull’introduzione di denaro contante. Per decenni, familiari di ‘ndranghetisti, ma non solo loro, hanno fisicamente trasportato, soprattutto in Ontario, decine di miliardi di vecchie lire, senza incorrere in alcuna sanzione».

Come è avvenuto in Italia negli anni del terrorismo di matrice politica, oggi la minaccia jihadista distoglie pericolosamente uomini e sottrae mezzi al contrasto della criminalità organizzata?
«Purtroppo molti paesi non riescono a gestire i due fronti contemporaneamente. Si investe poco in intelligence e, in molti casi,  le risorse inizialmente destinate alla lotta alle mafie vengono “stornate” per combattere il terrorismo. Oggi, la sicurezza nazionale è diventata la mamma di tutte le priorità. In Paesi dove le mafie si muovono sotto traccia, senza fare uso di violenza, l’attenzione soprattutto politica si è abbassata di molto».

Il riciclaggio, che innanzitutto richiede la separazione del denaro dalla fonte illecita, ha radici antiche. L’economia criminale si regge sul lavaggio di denaro sporco. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, i flussi di denaro riciclato ogni anno oscillano tra il 2% e il 5% del Pil globale, quasi duemila miliardi di dollari; in Italia corrisponde al 10% del Pil. Qual è il raggio d’azione del riciclaggio?
«Quello della contiguità tra due mondi solo apparentemente diversi. Il mondo di sopra e quello di sotto, legati insieme da interessi economici con professionisti, bancari, consulenti finanziari che non disdegnano i soldi del narcotraffico. Anzi, potremmo dire, senza tema di smentita, che i soldi della droga fanno gola a tanti. Cambiano solo le tecniche di riciclaggio con l’utilizzo di strumenti sempre più sofisticati e che, in molti casi, prevedono triangolazioni finanziarie con paesi off shore e l’utilizzo delle nuove tecnologie».

Nel saggio sottolineate come questo sistema si fondi sulla disponibilità di professionisti, in grado di fare quel che gli ‘ndranghetisti ancora non sono capaci di realizzare. È quel che sta testimoniando nel processo Aemilia il collaboratore di giustizia Antonio Valerio: un vorticoso giro di false fatturazioni con alcuni elementi, compiacenti o comunque poco solleciti dinnanzi a operazioni sospette, interni a istituti di credito.
«È questo il nodo principale della lotta al riciclaggio. La difficoltà a risalire ai prestanome e ai colletti bianchi che lo favoriscono. I mafiosi non ne sono capaci. Possono al massimo limitarsi ai piccoli investimenti immobiliari, all’apertura di ristoranti e, in qualche caso, alla costruzione di centri commerciali, sempre tramite società di comodo e prestanome. Sarebbe opportuno colpire con maggiore severità le collusioni che costituiscono l’ossatura di quasi tutte le principali operazioni di riciclaggio».

Tra il 2001 e il 2004 il riciclaggio di denaro in Italia è aumentato del 70%. Qual è stato in questo senso l’impatto dell’euro e perché per i narcotrafficanti è più funzionale del dollaro?
«Con l’introduzione del Patriot Act nel 2001, gli Usa hanno cominciato a monitorare tutte le transazioni in valuta americana effettuate nel mondo. Per paura di vedersi i fondi congelati, gli investitori arabi e musulmani hanno portato via i loro soldi dagli Stati Uniti e li hanno investiti in Europa. Sono gli anni del passaggio all’euro. I narcotrafficanti hanno visto nella valuta europea un mezzo per facilitare le operazioni di riciclaggio e di pagamento delle partite di droga. La banconota da 500 euro ha finito per spazzare via quella da 100 dollari, grazie alla capacità di ridurre di oltre il 70% il volume di trasporto».

Con l’attuale stima del fatturato annuo, la ‘ndrangheta sarebbe la quarta azienda italiana. Come osservate, la mafia calabrese segue alla lettera le logiche del capitalismo liberista, le cui regole non sono incompatibili con i capitali illegali.
«L’economia legale non scaccia quella illegale. C’è una sorta di corrispondenza di amorosi sensi».

Che cosa si intende per domanda di mafia?
«La voglia smaniosa di scendere a patti con gli ‘ndranghetisti. Di legittimarli, di riconoscerli socialmente. Di ricorrere in modo sistematico ai voti e ai soldi della ‘ndrangheta».

Dal 1992 al 2016 sono stati sciolti 248 consigli comunali italiani per infiltrazioni mafiose, 91 dei quali riconducibili alla ‘ndrangheta. È stato compiuto un ulteriore salto di qualità nella corruzione, è possibile stabilire delle differenze nel rapporto instaurato dalla mafia siciliana con la politica rispetto a quello della ‘ndrangheta?
«Nel 2010 un esponente di spicco di una famiglia di ‘ndrangheta viene intercettato mentre trascorre la propria latitanza di Irlanda. Al suo interlocutore dice di essere felice di trovarsi all’estero in concomitanza con le elezioni amministrative nel suo paese d’origine. Dice chiaramente che se fosse stato in Calabria la sua abitazione sarebbe stata un andirivieni di persone che lo avrebbero cercato per chiedergli il sostegno elettorale. Ormai lo fanno in tanti. Durante le campagne elettorali, le case dei boss vengono letteralmente prese di mira da tantissimi candidati, senza discriminazioni ideologiche. A differenza di Cosa nostra, per la ‘ndrangheta queste scene si ripetono anche al centro-nord. Il dato che emerge è che non si può parlare solo di infiltrazione in un tessuto socio-economico, come se fosse un attacco dall’esterno nei confronti di una realtà che prova a resistere. La realtà è diversa e più cruda: le investigazioni dimostrano che l’imprenditoria e la classe politica non si limitano a subire la ‘ndrangheta, ma fanno affari e accordi con essa e spesso prendendo l’iniziativa».

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lunedì 11 dicembre 2017

mercoledì 6 dicembre 2017

«Negroland, dove i neri sono ancora pedine». Intervista a Margo Jefferson

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 1-25

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

«Ci piace pensare che la storia sia un libro, e quindi di poter girare pagina, muovere il culo e andare avanti. Ma la storia non è la carta su cui viene stampata. È la memoria, e la memoria è tempo, emozioni, e canto. La storia sono le cose che ti rimangono dentro», ha scritto Paul Beatty ne Lo Schiavista, che gli è valso il Man Booker Prize.

In queste parole ritroviamo il lavoro di ricerca sulla memoria e sulla lingua che Margo Jefferson, classe 1947, ha concretizzato nel potente Negroland (66thand2nd, 270 pagine, 16 euro, traduzione di Sara Antonelli); un'opera che riesce a unire il saggio storico alla classica autobiografia. Docente alla Columbia University, Jefferson ha scritto per anni di letteratura e teatro per Newsweek e The New York Times, vincendo nel 1995 il Premio Pulitzer per la critica. L'autrice è fra gli ospiti internazionali più attesi a Più libri Più liberi e interverrà sabato alle 15 (Sala Sirio). Stamattina la Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria sarà inaugurata dal Ministro Dario Franceschini nella nuova sede del Roma Convention Center La Nuvola.

Lei, figlia dell'alta borghesia nera di Chicago, ha intrecciato in questo memoir il lessico familiare, le vicende biografiche con quelle politiche e sociali, il movimento per i diritti civili e quello femminista che hanno segnato il Novecento americano. Negroland rappresentava l'élite nera afroamericana: «Una piccola regione dell'America Negra i cui abitanti erano protetti da un certo grado di benessere e privilegi». A livello politico, educativo e sociale i membri di questa comunità immaginaria erano molto consapevoli del proprio lascito culturale come avanguardia degli afroamericani, seppure i percorsi individuali fossero in larga parte tracciati dalle discriminazioni.

Jefferson, Negroland, la sorta di terra natia nella quale lei è cresciuta, oggi mantiene gli stessi confini?
«Quel mondo è ancora profondamente cosciente della propria storia e delle tradizioni. Ha accesso a molti più privilegi e opportunità rispetto al passato, ma non creiamo equivochi: non viviamo in una società post-razziale. Il razzismo è vivo e prospera negli Stati Uniti. Il suprematismo bianco, la misoginia e l'omofobia sono tre delle identità settarie fondative degli Stati Uniti. Dico che la struttura di potere bianca procura un accresciuto, ma ancora limitato, numero di opportunità ai neri e alle altre minoranze.  Gli appartenenti a questo mondo relativamente avvantaggiato hanno accesso economico, sociale e culturale a privilegi un tempo riservati ai bianchi. Per quale ragione? Perché i loro antenati hanno lottato con forza, usando la legge, la politica e la cultura, tutti gli strumenti del Movimento per i diritti civili, affinché queste opportunità fossero più disponibili».

Il significato e dell'utilizzo della parola Negro come si sono evoluti dal 1947 a oggi?
«“Negro”, con la prima lettera maiuscola era una parola politicamente consapevole e progressista. In quale modo sono chiamati gli oppressi dai loro oppressori e come scelgono di chiamarsi a propria volta? È una questione assai complessa. Non molto tempo dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, Negro era vista come parola più assertiva, risoluta, in fondo in lingua spagnola significa nero, orgogliosa, meno raffinata. Oggi negli Stati Uniti è una parola insidiosa, poiché come ha sostituito “colored people”, a sua volta negli anni Sessanta è stata soppiantata dalla più funzionale “nero”, e infine da quella globalizzata Afro Americano. Nel mio libro ho deciso di usarla come un segno e simbolo storico molto preciso».

Qual è stato l'impatto del femminismo nel suo riconsiderare le questioni di razza, genere e classe in America? Nel libro sembra impossibile scinderle.
«Il femminismo è stato cruciale! Concepisco razza, classe e genere come la nostra trinità secolare. Certamente dobbiamo analizzare i dettagli di ogni ambito, ma se vogliamo un'analisi completa della condizione delle persone è impossibile; è irrealistico e bugiardo separarli uno dall'altro. Essi si contagiano e coniugano a vicenda, danno forma alle nostre vite e alla psiche, al modo in cui guardiamo al mondo. Ora si parla di intersezionalità: razza, classe e genere sono gli esempi perfetti di come identità multiple modellino e siano modellate dalla discriminazione e dall'oppressione. E, allo stesso modo, da preziose tradizioni culturali e sociali».

È ancora vivo negli Stati Uniti il mito di una società senza classi?
«Direi che esiste ancora un potente e sleale mito della mobilità di classe nel Paese. Resiste la fantasia che chiunque sia dotato di sufficiente ambizione e che lavori duramente possa avere successo, possa farcela. Ma quel chiunque è quasi sempre in partenza un uomo bianco ed eterosessuale. È evidente che il nostro sistema politico ed economico ricompensa sempre meno le persone povere o appartenenti alla working class, anche quando sono maschi, bianchi ed eterosessuali. Ma per molti, come dimostra chiaramente l'elezione di Trump, il bisogno di credere nel mito è tuttora più forte di questa preoccupante realtà».

Qual è il ruolo dell'élite nera negli Stati Uniti?
«Ora è stata integrata più che mai nella struttura di potere bianca. Tuttavia i neri al vertice della piramide di potere sono ancora pedine, e coloro che hanno venduto i propri principi per arrivare in quella posizione non meritano la nostra ammirazione o il desiderio di emulazione. Vorrei che il ruolo dell'élite nera corrispondesse all'idea di sfidare le regole ingiuste e le conseguenze prodotte da tali strutture».

Lei è diventata una critica di successo in un ambiente professionale difficile, anche il giornalismo incarnava la segregazione. Poche persone nere hanno vinto il Premio Pulitzer. In quale modo ha vissuto la pressione dell'ambizione e l'urgenza di affermarsi in questo tipo di società?
«Innanzitutto devo rendere omaggio ai giornalisti neri e alle giornaliste che negli anni Sessanta hanno contribuito all'integrazione razziale nella professione, quando ero ancora una studentessa. Loro mi hanno consentito di assecondare l'ambizione e hanno reso possibile la mia carriera. Le pressioni, che oltrepassano l'ambizione, e si orientano verso un'idea di perfezione interiorizzata sono intense. Mi confronto con esse condividendo le paure, i sogni e la scrittura con gli amici e i colleghi che più o meno si trovano nella medesima posizione».

lunedì 27 novembre 2017

La guerra non è finita. La sentenza Mladić


di Gabriele Santoro


La primavera del 1994 era cominciata da pochi giorni, quando Ana Mladić non si concesse più la fantasia di immaginare l’avvenire. Aveva ventitré anni, era una brillante studentessa di medicina, iscritta all’ultimo anno di università a Belgrado, e decise di uccidersi dentro casa con la pistola preferita del padre, una Zastava custodita fra i diari di guerra. Per Ratko Mladić, comandante militare serbo-bosniaco dell’allora esercito noto come VRS (Vojska Republike Srpske), a differenza della figlia c’era invece ancora molto da combattere.

Il Generale avrebbe dovuto conquistare Goražde e l’enclave bosniaca di Srebrenica, assediata per tre anni, eliminando poi nel luglio del 1995 8372 musulmani, perlopiù uomini, davanti all’inerzia dell’ONU che consegnò civili inermi ai boia. Le milizie controllate da Mladić produssero, oltre alle 93 fosse comuni finora scoperte, la deportazione di ventitremila persone. La giustizia nei tribunali dell’Aja e di Sarajevo ha incriminato settanta persone per il genocidio di Srebrenica. In quella che le Nazioni Unite avevano dichiarato “zona protetta”, ad altissima densità di profughi, si consumò l’ennesima presunta vendetta di una guerra fratricida, che ha fatto crescere fiori sulle tombe delle generazioni a cui sarebbe dovuto appartenere il futuro.


In una terra come la ex Jugoslavia, che non conosce il tramonto dell’odio, la figura di Ana è riemersa in seguito alla recente condanna all’ergastolo emessa nei confronti del padre dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia. Dopo cinque anni di processo, la Corte ha dichiarato Mladić colpevole di dieci degli undici capi di imputazione complessivi fra i quali genocidio, persecuzione, sterminio, omicidio, deportazione con quattro “imprese criminali congiunte” della leadership serbo-bosniaca commesse tra il maggio del 1992 e il novembre del 1995: la rimozione permanente o pulizia etnica dei croati e dei musulmani dai territori proclamati serbi in Bosnia-Erzegovina, il genocidio di Srebrenica nonché i crimini contro l’umanità in altre municipalità, il terrore contro la popolazione di Sarajevo, la presa in ostaggio del personale ONU per fermare i bombardamenti contro gli obiettivi militari serbo-bosniaci.

È decaduta invece l’accusa di genocidio in altre sei municipalità della Bosnia orientale e settentrionale. Nella sentenza i giudici hanno riconosciuto il ruolo determinante nella catena di comando e la responsabilità diretta di Mladić nei crimini perpetrati. Per comprendere la sua capacità di fuoco, nella sintesi del dispositivo della sentenza si legge che riguardo Srebrenica nel solo 16 luglio 1995 oltre mille civili furono uccisi sommariamente presso il Branjevo Military Farm. Prima dell’esecuzione i militari legavano le mani delle vittime e intimavano loro di pregare “alla maniera musulmana”.

La guerra per la famiglia Mladić non è finita, non c’è ravvedimento come hanno dimostrato la protezione durante la lunga latitanza, sedici anni dalla messa in stato d’accusa nel luglio e nel novembre 1995 all’arresto nel 2011, e l’intera condotta processuale del condannato tracotante, iracondo che esprime la debolezza dell’irriducibile davanti al giudizio. «Questo è stato solo il primo tempo – ha fatto dire Mladić al figlio Darko in una nota apparsa sul quotidiano belgradese Vecernje Novosti – lotterò per cancellare queste menzogne e far emergere la verità sulla lotta dei serbi». E ancora: «Mio padre non è colpevole di nulla – ha aggiunto Darko all’Aja – . Ho sempre pensato che qualunque verdetto di questa corte non sarebbe stato accettabile dalla mia famiglia. Ogni analisi legale dimostra che l’accusa non è riuscita a provare il suo coinvolgimento». In questo senso è interessante e significativo il quadro delle reazioni riduzioniste se non negazioniste alla sentenza in Serbia. Ci ricordano che Ratko Mladić non entrò da solo a Srebrenica.

In assenza di una traccia scritta, ma spesso anche in sua presenza, le ragioni di un suicidio sono intimamente insondabili, tuttavia la scelta di Ana Mladić chiama in causa tutti gli attori di questa tragedia e restituisce l’intera misura dolorosa di legami familiari inestricabili. C’è un video su YouTube nel quale il giovane Darko presidia la bara della sorella, mentre Ratko in abiti civili si riversa inconsolabile sul feretro e strofina con veemenza sulla teca, che racchiude il volto ormai inespressivo della figlia, il fazzoletto col quale si asciuga le lacrime.

Da questa immagine Clara Usón iniziò a scrivere La figlia (Sellerio editore, 496 pagine, 16 euro, traduzione dallo spagnolo di Silvia Sichel), romanzo potentissimo pubblicato nel 2013 che, mescolando storia e finzione narrativa, ha saputo rappresentare il crollo della ex Jugoslavia e la fine dell’innocenza per almeno tre generazioni. Un’opera fondamentale, da leggere e rileggere, equiparabile per rilevanza al lavoro di Jože Pirjevec, per come entra con levità e cura nelle pieghe del male.

«Cominciò a piovere quando stava imboccando la salita di Blagoja Parovića, si era alzata una bufera, aveva ripreso a soffiare il košava, il rigido vento invernale, come a volerle ricordare che la primavera era un miraggio, un’illusione, che il freddo era sempre in agguato nonostante le gemme e gli alberi in fiore. Non le dispiacque bagnarsi, come se la pioggia e il freddo fossero un castigo meritato. Le tornò in mente quel racconto di Tolstoj, “Dopo il ballo”, e si chiese se la figlia del colonnello che aveva frustato il disertore, quella Varen’ka, che le aveva fatto tanta pena, fosse innocente. E se Varen’ka sapeva e non gliene fregava? E se era perfettamente informata di ciò che avrebbe fatto suo padre in quel terreno abbandonato e, ciononostante, aveva continuato a ballare con il narratore, indifferente, estranea a tutto ciò che esulava dal suo piacere?».

La scrittrice, percorrendo le orme del racconto di Tolstoj, immagina la progressiva presa di coscienza della giovane Ana di come il padre fosse in realtà fra i carnefici della propria giovinezza: «Aveva disgustato tutti, anche lei, certo, anche se non lo avrebbe mai ammesso: il suo abbattimento, la sua delusione avevano una sola causa: quella guerra che non finiva più e minacciava di distruggere la vita non solo dei morti, ma anche dei vivi, come lei, come suo fratello, come i suoi compagni di università, che vedevano la loro gioventù sfuggire e il futuro sempre più cupo».

Ana Mladić, dopo un viaggio a Mosca insieme ad amici prima della laurea in medicina, distante dalla censura dell’informazione serba ormai sapeva e la tristezza non se ne andò più dal suo volto. La ragazza bella e disinvolta era tornata diversa a Belgrado. Il mezzo ungherese Petar le aveva illuminato le crepe del sogno della Grande Serbia, l’evanescenza della parola patria davanti alla distruzione di Vukovar; Martina rimpiangeva Tito; Dragan era il soldato che l’amava e Ratko, ostile a quell’unione, l’aveva mandato a morire al fronte. In fondo forse Petar non era un disertore, non era un traditore della nazione associata al sangue versato dai soldati. Durante una delle serate moscovite Ana disse a un corteggiatore che proveniva dal Principato di Andorra, dove le persone non avevano un nome, ma corrispondevano a un numero. Ana rinunciò a rinnegare l’umanità.

Nel tratteggiare con precisione i profili degli architetti ed esecutori dell’orrore fra i quali Slobodan Milosević, Radovan Karadžić, Franjo Tudjman e Ratko Mladić, Usón rammenta che nessuno è immune dalla paranoia individuale e collettiva di quella forma di fascismo che è stato il nazionalismo post-jugoslavo. «Forse solo uno che crede di avere un futuro osa costruire musei», sostiene Dubravka Ugreŝić. Il revisionismo storico di culture politiche artificiose e autoritarie, riempite ancora di retorica nazionalista e della strumentale esaltazione di radici religiose, e l’ingresso nel presepe delle odierne democrazie balcaniche dei criminali o complici di una guerra disgregatrice innanzitutto dei legami sociali, familiari non ammettono la cultura e l’esercizio della memoria.

Raccontando la fine non solo letteraria senza più un amore di Ana Mladić, Usón riporta lo stralcio dell’intercettazione di una telefonata intercorsa nel 1996 tra Marko Milošević e il padre presidente Slobodan, che indirettamente ci dà il senso ultimo del suo sottrarsi agli uomini della macchina da guerra:

M: «Cosa ne dici se metto su una clinica ostetrica?».
S: «Be’, da un punto di vista umanitario non è poi così male, ma come affare non vale un cazzo».
M: «Papà, sai quanto costa un aborto in un qualsiasi tugurio di Požarevac?».
S: «Non saprei».
M: «Centocinquanta marchi tedeschi».
S: «Marko, in una clinica ostetrica non si fanno aborti. Ci si fanno nascere i bambini».

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martedì 31 ottobre 2017

Viaggio nel cuore della Siria


di Gabriele Santoro

I bordi della strada che collega Sarajevo a Mostar sono disseminati di lapidi invadenti, le quali esprimono l’urgenza di ridefinire l’anima del paesaggio. Quel che si è voluto cancellare, uccidendo, resta una presenza fisica, estremamente umana, finché esiste qualcuno con la forza e la limpidità necessarie a raccontare la distruzione, il cuore in frantumi di uno Stato imploso.


«Scriverai tutto quello che ti dico?».

«Basta così» disse prendendomi la mano. «Se moriremo, il mondo conoscerà la nostra storia, vero?».

Una studentessa universitaria ventenne pone la domanda a Samar Yazbek, giornalista e scrittrice siriana esule in Francia dal luglio del 2011, per poi esternare l’orrore per il massacro indiscriminato di innocenti perpetrato in Siria. Yazbek, nata in una famiglia di spicco alawita, è tornata in patria nel 2012 sotto i bombardamenti, attraversando clandestinamente in diverse occasioni fino al 2014 il lungo confine turco siriano per raccogliere le voci sradicate intimamente dalla propria terra a Saraqeb e Kafranbel, città iconiche e ribelli nel nord del paese.

Passaggi in Siria (Sellerio, 340 pagine, 16 euro, traduzione di Andrea Grechi) è un libro essenziale per tutte le volte che siamo rimasti indifferenti e per quando ci scopriremo di nuovo tali verso questa guerra epocale, così assente dalle nostre cronache. Nel lavoro di testimonianza di Yazbek emerge un’alta dimensione politica, che restituisce il profondo senso di abbandono di un popolo il cui destino diviso è nelle mani degli interessi divergenti delle potenze internazionali, immerse dentro a una guerra per procura.

In fondo durante la lettura non incontriamo né emigranti, né profughi, né rifugiati politici, ma persone che assomigliano ad alberi con le radici recise con tutto ciò che comporta il non riconoscersi più nella propria terra. Quando si smette di sparare, di torturare chi era il proprio vicino di casa, le strade delle città cambiano spesso nome. La toponomastica, dettata dai vincitori in una vastità di macerie, quanto il censimento anagrafico rappresentano uno smarrimento difficilmente sanabile. In molti però non si arrendono, non se ne sono andati o sognano il giorno del ritorno.

Questa è la storia di una rivoluzione tradita, e soprattutto di aspirazioni di libertà soffocate ancora in fasce, trasformata dalle proteste pacifiche contro il regime di Assad in un conflitto senza fine: «L’unico vincitore in Siria è la morte: ovunque non si parla d’altro. Tutto è relativo, tutto è in dubbio; l’unica certezza è che la morte trionferà». Quel che appare più atroce è come la macchina della morte possa diventare la cosa più rilevante nella vita delle persone, costrette a convivere con la mira del cecchino.

Sulle rovine c’è una sola via d’uscita ed è linguistica: la memoria, la lingua e le cose per dare un’identità alle macerie di una sconfitta e una ragione alla sopravvivenza. Yazbek non fugge dalla realtà, riuscendo nell’impresa di ricomporre le parti smembrate di un corpo che non smette di sanguinare. La frontiera con la Turchia è porosa, sono entrati combattenti stranieri jihadisti, armi e oggi fiorisce il traffico sull’esodo di massa di esseri umani, che ha sconvolto la struttura demografica della Siria.

I cittadini in fuga hanno imparato a prendersi gioco della fine, ma per loro non c’è nessuna luminosa terra straniera ad attenderli: «Il padre della ragazza era seduto sul marciapiede, la faccia imbiancata di polvere. Guardava fisso davanti a sé: non fosse stato per la sigaretta accesa, sarebbe sembrato una statua. Anche i capelli e i vestiti erano ricoperti di polvere. Non era presente quando erano cadute le bombe, quando la sua casa era crollata in un cumulo di macerie. Aveva estratto i corpi della moglie e del figlio, mentre la bambina di quattro anni risultava ancora dispersa».

Uno dei prodotti di qualunque forma di totalitarismo al collasso è l’esplosione endogena del settarismo in assenza di una visione comune, la negazione della possibilità di una fiducia reciproca. Yazbek però non rinuncia all’orizzonte della coesistenza: non si considera alawita, bensì appartiene solo all’idea di una Siria democratica. Lei non ha sostituito l’appartenenza all’essere.

L’autrice pone indirettamente una domanda fondamentale per il nostro futuro. Dinnanzi a una transizione storica, a una trasformazione radicale occorre necessariamente passare per l’imbarbarimento e la regressione in tutti gli ambiti della vita? Non possiamo fare a meno della distruzione anche culturale? I libri erano bruciati. Le biblioteche piene di saperi plurisecolari devastate prima del fuoco piovuto dal cielo. La distruzione della propria infanzia è un’impresa pericolosa dalla quale si corre il rischio di non riprendersi mai più.

Passaggi in Siria è un tributo indispensabile ai giovani e alle giovani che hanno scortato Yazbek durante il viaggio. Probabilmente oggi molti di loro sono vittime di quella che la Storia ricorderà come un’immane tragedia del ventunesimo secolo tenuta distante da noi.

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lunedì 16 ottobre 2017

Memorie d'Africa: l'inchiesta Sankara è ancora aperta


Thomas Noël Isidore Sankara, classe 1949, è stato assassinato così giovane da ingombrare quasi necessariamente un’eternità. Il 15 ottobre del 1987, quando il Presidente del Burkina Faso cadde vittima di un agguato di stampo terroristico, era nel pieno dei propri trent’anni come fra gli altri Patrice Lumumba e Stephen Biko. Il settimanale Jeune Afrique gli ha dedicato la copertina dell’ultimo numero con la domanda inevasa da trent’anni: Chi ha ucciso Sankara?


Andando oltre l’icona, il feticcio del rivoluzionario panafricano amico del popolo, resta il dato che nessuno ha saputo soddisfare le concrete istanze politiche, economiche, sociali poste dal padre della rivoluzione burkinabè o meglio da un intero continente. Intesero eliminare l’uomo nuovo, l’eccezione che mirava a correggere una storia sbagliata. Anche le generazioni che non hanno vissuto in prima linea l’insurrezione e il processo politico che portarono l’Alto Volta a divenire Burkina Faso, la terra degli uomini integri, associano Sankara al sogno finora inesaudito di una classe dirigente non corrotta, emancipata dalle forme molteplici assunte dal neocolonialismo.

È un fatto che Sankara spaventi anche da morto. Non abbiamo notizia certa della localizzazione della tomba o del perimetro di terra che custodisce i suoi resti. L’indagine genetica, e non solo, è ancora in corso fra perizie e controperizie. L’inchiesta è stata rilanciata tre anni fa dopo la fine del regime politico dell’ex presidente Blaise Compaoré, per trent’anni al potere, oggi in esilio in Costa d’Avorio con un mandato d’arresto internazionale pendente per il suo presunto ruolo nell’omicidio Sankara.

La memoria pubblica però è un’altra storia, è andata oltre la negazione in quanto urgenza di costruzione di un’identità. Da Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, al resto del continente non è stato dimenticato soprattutto l’esempio di Sankara, il vocabolario che produsse una rottura a  fronte di un’oppressione plurisecolare e della disillusione seguita all’indipendenza. «Osiamo inventare l’avvenire», sosteneva Sankara, e non era semplice farlo nel secondo paese africano più povero, dove l’aspettattiva di vita non raggiungeva i 40 anni.

Non gli mancava il coraggio. Uno degli elementi più interessanti della breve e intensa vicenda sankarista è la messa in discussione del paradigma della Françafrique perpetuatosi anche dopo il 1960. Nel giorno della liberazione del Mali De Gaulle aveva ammonito: «L’indipendenza reale, l’indipendenza totale non appartiene a nessuno. Non c’è politica possibile senza cooperazione». Trent’anni più tardi Sankara pretese di confrontarsi con pari dignità con l’omologo francese Mitterrand, giunto in visita nel 1986 nella vecchia colonia, e il discorso fu duro:

«(…) Non abbiamo compreso come banditi quali il guerrigliero angolano Jonas Savimbi e assassini come il presidente sudafricano Pieter Botha abbiano avuto il diritto di percorrere la Francia così bella. L’hanno macchiata con le proprie mani e i piedi grondanti di sangue. E coloro che gliel’hanno permesso porteranno l’intera responsabilità qui e altrove, oggi e per sempre».

Come mostra un filmato d’epoca, dopo aver ascoltato Mitterrand si rivolse in modo quasi paternalistico: «Come lui dirò ciò che penso. Trovo alcuni fra i suoi giudizi troppo tranchant, ha la perentorietà di una bella gioventù. Ha il merito di essere un Capo di Stato completamente devoto al proprio popolo e lo ammiro. Qualità importanti ma è troppo tranchant, si spinge avanti più di quello che sia necessario. Mi permetto di dirlo dall’alto della mia esperienza», concluse poggiando una mano sulla spalla del presidente burkinabè.

Le biografie ricordano come fin dalla tenera età Thomas scegliesse sempre di stare dalla parte dei più deboli, lui figlio che non aveva patito la povertà dell’epoca coloniale. Un giovane in rivolta, formatosi tra un’educazione ferventemente cattolica e l’accademia militare, fin da adolescente guardava a sinistra, all’antimperialismo.

Con l’impeto che lo contraddistingueva, sapeva anche riconoscere limiti evidenti e debolezze nell’azione di un trentatreenne. Tre mesi prima di essere assassinato, in quello che è considerato il discorso testamento, non esitò a evidenziare errori del processo che guidava, proponendo correzioni e cercando di scongiurare derive massimaliste che non mancarono, il settarismo tribale e all’interno delle forze rivoluzionarie. Lui non ricorse alla violenza per mantenere il controllo e sbarazzarsi dei nemici interni, piuttosto il martirio come poi avvenne e ciò lo eleva.

Nei venti anni successivi all’indipendenza il Burkina Faso visse tre colpi di Stato. Dopo quello del 1980 iniziò l’ascesa di Sankara. Nominato Capitano, poi segretario di Stato per l’Informazione, si distingueva spesso dalla condotta governativa, quando avversava il popolo, fino alle dimissioni. Colpivano il suo linguaggio coerente nel tempo con i comportamenti, la creatività, l’energia che sostanziarono un immaginario, il riscatto dei vinti che sostennero seppure in assenza di libere elezioni la sua ascesa al vertice dello Stato.

Si misurò con sfide politiche, economiche e sociali di tale ampiezza, a cominciare dall’autosufficienza alimentare di un popolo affamato e in quattro anni il risultato su questo fronte fu fuori dall’ordinario. Poi la letterale costruzione dal nulla di un’economia locale, forze produttive non più dipendenti dall’estero, l’alfabetizzazione e il decisivo coinvolgimento delle donne in una società marcatamente patriarcale. Se oggi il fenomeno migratorio è strettamente connesso anche a ragioni ambientali, anzitempo Sankara si rese conto dei rischi della progressiva desertificazione e di quanto l’ecologia dovesse essere in cima all’agenda politica. In uno dei suoi interventi più celebri Sankara tematizzò la questione ineludibile del debito e di quella che oggi definiremmo l’austerità per il pieno compimento della rivoluzione. Durante la sua presidenza, a fronte di un debito troppo esoso da onorare, il sostegno delle istituzione economiche internazionali crollò del 25% e quello francese passò da 88 a 19 milioni di dollari in tre anni.

Sankara è stato accusato di aver corso troppo con un ritmo di riforme e cambiamenti non sostenibile senza forze sociali strutturate alle spalle, in un quadro politico interno frammentato e internazionale ancora segnato dalla Guerra Fredda. Nel corso di un’intervista televisiva si definì «un ciclista che scala una salita ripida con due precipizi a destra e a sinistra». «Per restare me stesso, per sentirmi tale – concluse – sono obbligato a continuare con questo slancio».

Qual è stata la conquista essenziale del presidente più giovane che l’Africa abbia conosciuto? Non essere espulsi dalla storia in quanto poveri, anzi credere di riuscire a determinarla in un contesto mondiale di profonda convulsione economica, che avrebbe poi prodotto un difficilmente reversibile aumento delle diseguaglianze. «La cosa più rilevante, credo, sia di aver condotto il popolo ad avere fiducia in sé stesso – disse Sankara –, a comprendere che, finalmente, bisogna sedersi e scrivere il proprio sviluppo; sedersi e scrivere la propria felicità; l’opportunità di dire ciò che desideriamo. E al contempo sentire intimamente qual è il prezzo che si è disposti a pagare per questa felicità».

mercoledì 4 ottobre 2017

I sogni della gioventù tunisina: intervista a Shukri al-Mabkhout

di Gabriele Santoro

Correva l’anno 2015. Una settimana dopo aver saputo che il proprio romanzo era stato bandito dalle librerie degli Emirati Arabi Uniti, per riapparire successivamente, Shukri al-Mabkhout ha ricevuto nella capitale Abu Dhabi il più importante premio internazionale per la narrativa araba (International prize for arabic fiction) per il romanzo d’esordio L’Italiano (traduzione dall’arabo di Barbara Teresi, 365 pagine, 18.50 euro), uscito in Tunisia nel 2014 col titolo al Talyānī e recentemente pubblicato in Italia da e/o. Un paradosso evidente che tuttavia non sorprende, e coglie lo spirito dell’opera capace di disvelare ipocrisie e contraddizioni di società sospese tra la conservazione coatta e la rivoluzione.

A Tunisian woman holds her national flag as she takes part in a rally on Habib Bourguiba Avenue in Tunis on January 14, 2016, to mark the fifth anniversary of the 2011 revolution. / AFP / FETHI BELAID

Al-Mabkhout, classe 1962, nato a Tunisi, accademico, rettore dell’Università di Manouba e direttore della fiera del libro della capitale tunisina, apprezzato critico letterario e traduttore ha scritto un romanzo di rilievo, che riesce a incarnare aspirazioni, lotte e disillusioni di un popolo alla ricerca di libertà e dignità. Al-Mabkhout ha cominciato a scriverlo stimolato dai tumulti della rivoluzione tunisina nel 2011, che esprimevano anche l’anelito represso dei giovani della generazione precedente. È una critica al potere pur nelle evoluzioni mai dissimile nella propria violenza.

«Il grande sviluppo della narrativa araba è una testimonianza della nostra presa di coscienza o della consapevolezza dei fallimenti e dell’oppressione. Scrivere romanzi è lo strumento letterario per esporre tutte le nostre contraddizioni ed essere liberi», dice l’autore.

L’italiano è Abdel Nasser, così soprannominato per la bellezza e i propri tratti somatici, e rappresenta la vicenda di uno studente di sinistra immerso negli eventi che caratterizzarono il tramonto della dittatura di Bourguiba e l’inizio del regime di Ben Ali nel 1987. È un trentenne smarritosi nella ricerca di un mondo che non c’è. Abdel, finito a fare il giornalista filogovernativo, appassito per il futuro mancato di una modernità che non assomiglia per nulla a quella sognata, e la giovane sposa Zeina, l’intellettuale impossibile da irregimentare, da cui divorzierà, affrescano dal microcosmo dell’Università di Tunisi il travaglio mai concluso di un Paese.

Al-Mabkhout, c’è un filo rosso che congiunge i sogni del giovane Abdel Nasser a quelli dell’odierna gioventù tunisina?
«Lui è il simbolo di una generazione, la mia, delle ideologie, delle lotte e dei conflitti di un’epoca, della sinistra sotto la dittatura. Idee e valori che non trovavano modo di realizzarsi in una società profondamente conservatrice, plasmata da un regime atroce che non permetteva la libertà di manifestazione del pensiero e dell’azione politica. Oggi in tutto il mondo è cambiata la nozione stessa di sinistra, ma le questioni e i desideri restano tali. I giovani e le giovani emersi dalla rivoluzione hanno altre sensibilità, altri modi di guardare il mondo e di agire. Personalmente coltivo le illusioni di Abdel, che mi appartengono, ma la mia sfida, consapevole della storia, consiste nel conoscere questa generazione, il suo linguaggio».

L’università è quasi un personaggio del romanzo, un luogo che condensa e dipana gran parte delle aspirazioni anche politiche di una generazione. Dal suo osservatorio presso l’Università di Manouba che cosa scruta?
«È vero, il romanzo prova pure a descrivere il ruolo dell’università nella lotta per la libertà in Tunisia, un’enclave in cui si tentava l’opposizione alla dittatura. Era uno spazio in cui tutte le tendenze politiche, seppure sotto osservazione permanente del regime, che non trovavano spazio pubblico fuori dalle aule potevano esprimersi. Molti movimenti di sinistra o nazionalisti arabi sono nati e fioriti all’interno dell’università, poiché gli studenti erano intellettualmente in grado di formulare teorie e proposte politiche. Dopo la rivoluzione del 2011 il quadro è più complesso. L’apertura del campo partitico ha contagiato la realtà universitaria, i militanti hanno invaso un terreno di sperimentazione politica e minato anche la crescita culturale, ciò ha scavato fossati interni, indebolendo i movimenti studenteschi e l’istituzione stessa. Non sono mancate le tensioni, numerose le interruzioni dell’attività con una mera retorica dell’esclusione dell’avversario. Anche l’università vive una fase di transizione».

La figura di Zeina emerge proprio all’università e il protagonista maschile, Abdel, in qualche modo da lì si rivela nel rapporto con le donne che hanno un ruolo preponderante nella narrazione. Che cosa le accomuna?
«Non è possibile generalizzare la figura femminile, ma sono unite dalla volontà di emanciparsi non solo individualmente. Ognuna di loro si batte con le proprie esitazioni e visioni del mondo. Le sofferenze, le ferite e le urgenze non differiscono da quelle delle donne occidentali. Hanno una dialettica con Abdel che tira fuori le sue contraddizioni, debolezze e il macismo. Nella ricerca delle donne raffigurate nel testo, nella loro indipendenza si disvelano le ipocrisie e la povertà culturale delle società conservatrici».

Dall’indipendenza nel mondo arabo musulmano la Tunisia è il paese a garantire più diritti alle donne. L’articolo 21 della Costituzione tunisina afferma che i cittadini e le cittadine sono eguali davanti alla legge, hanno medesimi diritti e doveri, e al secondo comma dà loro eguali libertà e diritti individuali e collettivi. Una lunga marcia che rappresenta un’eccezione e il cui successo non può essere scisso dal sogno della rivoluzione?
«Sì, la nostra storia è particolare e si collega alla costituzione dello Stato nazionale. Nel 1956 la legge proibì la poligamia, concesse l’adozione vietata dalla legge islamica, prima che in Francia e in Italia è stato riconosciuto il diritto all’aborto, è stata garantita la parità nell’accesso all’istruzione e al mondo del lavoro. Oggi la percentuale delle donne iscritte all’università è più alta rispetto a quella degli uomini, così come in altri settori lavorativi dall’insegnamento alla medicina. È una dinamica sociale creata da un complesso di leggi progressiste, che tutt’oggi non ha eguali nei paesi arabi musulmani. Il percorso legislativo prosegue dalla più recente misura contro la violenza all’eguaglianza in materia di eredità a differenza del dettato coranico, passando per la possibilità di poter sposare un uomo non musulmano. Tutto ciò corrisponde a una medesima logica riformista. La donna in Tunisia sta costruendo un nuovo modello di famiglia. Ovviamente non è tutto perfetto, come d’altra parte in Occidente, ma siamo dentro a un processo di standardizzazione dei diritti e resta molto lavoro da fare».

Rispetto a tali conquiste esiste un pericolo di regressione?
«Non credo, perché non si tratta di diritti acquisiti ma vissuti che è qualcosa di più profondo dal solo riconoscimento su un piano giuridico. La donna tunisina li vive quotidianamente e ha un peso crescente nella società. Le stesse donne che militano dentro a partiti o movimenti di matrice islamica hanno interiorizzato questo spirito, diciamo progressista, e non considerano passi indietro verso condizioni formali e sostanziali di svantaggio. Escludono per esempio la possibilità di un ritorno alla poligamia. Tentativi di questo genere hanno subito incontrato l’opposizione con grandi manifestazioni. Tutti hanno compreso che la donna tunisina lotterà per difendere i propri diritti».

La Tunisia dibatte ancora i termini del ruolo che l’Islam giocherà nella vita pubblica, politica. Colpisce un episodio recente di cronaca. Un’insegnante, Faiza Souissi, di una scuola elementare della città di Sfax, centro economico del paese, è stata aggredita verbalmente da un gruppo di genitori di alunni, accusandola di essere ostile ai precetti religiosi: bambini e bambine non avrebbero dovuto sedersi vicini. È dovuta intervenire la polizia per scortarla a casa.
«Lo Stato nazionale costruito da Bourguiba non era laico, lui stesso si scagliò contro la laicità di Kemal Ataturk. Lo mise all’indice, sostenne come ciò fosse folle: non si possono cambiare le società musulmane attaccando l’Islam. Bourguiba vendette tutte le riforme in nome della religione, esattamente ciò che gli islamisti hanno sempre fatto. Ha mantenuto un comportamento da equilibrista con la religione di Stato, neutralizzando esponenti di quel potere. La questione religiosa non avrà molta influenza sull’avvenire almeno giuridico del paese. La disputa ideologica, politica invece resta aperta. Anche prefigurando uno scenario pressoché impossibile, gli islamisti al potere, non potranno modificare le fondamenta più che radicate dello Stato».

lunedì 18 settembre 2017

«La mia Africa tra speranza e disillusione». Una conversazione con il Nobel Wole Soyinka

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 21

di Gabriele Santoro


Lettura dell'intervista a Pagina 3 Rai Radio3

http://www.radio3.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-a8350ee7-7d0d-4b75-9d57-9f2d0cc83466.html

di Gabriele Santoro

«Soyinka, con la sua scrittura versatile è stato capace di sintetizzare la ricchissima eredità culturale del suo paese, miti e tradizioni antiche, insieme al patrimonio letterario e alle tradizioni della cultura europea», si legge nella motivazione con cui l'Accademia svedese nel 1986 assegnò a Wole Soyinka il Premio Nobel per la letteratura.

Poeta, drammaturgo e romanziere, intellettuale, classe 1934, ha sempre unito alla potente immaginazione e creatività un'ineludibile dimensione politica. È stato ospite d'onore del festival Pordenone legge, che si conclude oggi. Ha pubblicato circa venti opere fra testi teatrali, poesie e i due romanzi (Gli interpreti e L'uomo è morto) nuovamente tradotti e ripubblicati in Italia da Jaca book. Nato in un piccolo villaggio prossimo a Ibadan, nella parte occidentale della Nigeria, si è formato e ha sviluppato il proprio talento con un'esperienza fondamentale sul finire degli anni Cinquanta al Royal Court Art Theatre di Londra, per poi tornare in Nigeria.

Per aver invocato la tregua nella guerra civile nigeriana, fu arrestato nel 1967, accusato di cospirazione con i ribelli del Biafra, e trattenuto in carcere per ventidue mesi, dove appuntava sulla carta igienica le proprie poesie di libertà. Ha sfidato poi negli anni Novanta il regime di Sani Abacha. 

Soyinka, nel suo romanzo Gli interpreti, apparso nel 1965, i personaggi esplorano la distanza tra le alte promesse dell'indipendenza e la disillusione per le conquiste mancate. Dopo cinquant'anni che cosa è cambiato?
«Questo romanzo getta uno sguardo sulla mia generazione. Dopo aver studiato all'estero ci sentivamo invincibili, pronti a guidare la rinascita come avanguardia responsabile del riposizionamento dell'Africa nel mondo. Volevamo essere i liberatori del continente dal Sudafrica alla Rhodesia. Al potere invece a livello politico, culturale ed economico si instaurò una classe dirigente in larga parte corrotta, che ha messo i propri piedi sulle orme lasciate dalle vecchie potenze colonizzatrici. E non abbiamo finito di pagare il conto della disillusione».   

La figura di Mandela riempie ancora l'immaginario dei giovani africani, come è stato per la sua generazione? A dicembre l'African National Congress cambierà la propria leadership, è al tramonto la stagione controversa del presidente Zuma.
«Mandela è stato come un fratello maggiore. Dopo la sua liberazione, nel nostro incontro era esattamente l'immagine che mi aveva accompagnato negli anni: un uomo dal coraggio quieto. La sua lotta per la libertà e la dignità umana entrarono nelle mie poesie. Molti non sono stati d'accordo col suo spirito di riconciliazione, considerandolo troppo lento, intendevano produrre una rottura. L'ANC ora attraverserà una transizione delicata, che non deve compromettere ciò che è stato conquistato».

Nel 2040 l'Africa raggiungerà il miliardo di abitanti, il 56% dei quali vivrà in città rispetto al 14% del 1950. Qual è l'impatto culturale e sociale dell'urbanizzazione?
«È la sfida principale. In ogni paese africano questo fenomeno si presenta non strutturato, non governato. In Nigeria il boom petrolifero è stato il motore della crescita esponenziale dell'urbanizzazione e ciò ha colpito con crescente pressione le strutture preesistenti con il conseguente crack dei centri urbani, non pronti ad ammortizzare tale crescita. Senza investimenti pesanti sulle infrastrutture, sui servizi urbani la trasformazione non equivarrà al miglioramento delle condizioni di vita. Ed elemento da non sottovalutare è l'impatto della cultura che porta chi si sposta dalle zone rurali, la loro integrazione».

Fenomeno migratorio: che fare?
«Innanzitutto la responsabilità è alla fonte, i governi dei paesi africani non sono all'altezza delle necessità dei propri cittadini. Vige una gerontocrazia, cerchie ristrette di potere familistico che si arricchiscono alle spese della collettività. L'Europa non può però dimenticare il proprio ruolo secolare destabilizzante in Africa, vera e propria anima con le materie prime dello sviluppo occidentale. Occorre chiudere rotte che disseminano morti nel deserto e nel mare, ma è impossibile rimuovere la pressione migratoria senza risposte economiche e la cessazione dei conflitti».

Gli Stati Uniti, il presidente Carter, la accolsero, esule a causa della dittatura di Sani Achaba. Dopo la vittoria di Trump lei ha rinunciato alla sua green card.
«Mi indigna l'impoverimento del linguaggio, la retorica dell'esclusione. Il muro di Trump è già eretto nelle menti. Sono stato molto coinvolto culturalmente, politicamente, a livello emozionale nel movimento di liberazione dei neri d'America. Tutto ciò è una ferita e ho sentito la necessità del distacco con un gesto simbolico».

In questa stagione della sua vita che cosa rappresentano la scrittura e il teatro?
«La storia africana è inscindibile dalla diaspora, il mio impegno intellettuale si sta concentrando su questo campo accademico vasto e di immenso interesse. Sono cresciuto in un ambiente, la cultura yoruba, in cui tutto era in qualche modo teatro e resta un luogo straordinario di sperimentazione. Vorrei avere più tempo per scrivere, ma l'attivismo politico si intreccia sempre».

Che cosa ha dato la politica alla sua arte?
«Senza l'impegno politico non sarei stato lo scrittore, drammaturgo che sono. La letteratura e il teatro mi hanno consentito di elevarmi dall'intollerabile nella società, rispondendo politicamente. Ciò mi ha tramesso la pace per potermi occupare di arte. Il teatro è stato per me lo strumento più efficace per onorare la responsabilità sociale».

I suoi genitori erano cristiani. Qual è la radice dell'intolleranza religiosa in Nigeria?
«Soprattutto nell'ultimo ventennio la religione ha cominciato a mischiarsi con la politica. Boko Haram è il prodotto di decadi di tatticismo politico, sottovalutazione del problema e sostegno per interesse politico. Le relazioni interreligiose tra cristiani e musulmani in Nigeria si sono deteriorate mediante la speculazione politica sulla gente comune al di fine costruire il proprio potere, l'area di influenza. Occorre combattere la cultura dell'impunità nel terreno religioso, l'Africa è una parte essenziale nella sfida al fondamentalismo: non dimenticate anche le nostre vittime del terrorismo».

Lungo la strada, in nome di una Nigeria stabile e moderna, ha perso amici e uomini coraggiosi come Ken Saro-Wiwa. L'unità del gigante africano è a rischio?
«Spero di no, ma è fuori discussione che i nigeriani siano del tutto insoddisfatti dell'attuale struttura dello Stato, e domandano con determinazione crescente un cambiamento rispetto all'ipertrofica centralizzazione del potere a scapito delle differenze ed esigenze regionali in un paese così vasto. È diffuso un senso di alienazione, mentre nessun gruppo etnico dovrebbe essere oppresso. Tutto è negoziabile anche l'unità del paese, non il diritto delle persone a determinare il proprio futuro».

domenica 10 settembre 2017

Tutto è possibile, intervista a Elizabeth Strout

Il Messaggero, sezione Macro, pag. 23 

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

«Ciò che mi interessa principalmente è scrivere a proposito delle persone, senza accontentarmi di un solo sguardo», ha ripetuto spesso Elizabeth Strout, una delle autrici statunitensi più note, rispettate e ammirate. A Mantova, nei giorni del Festivaletteratura appena finito, è stata forse l'ospite più ricercata, circondata dall'affetto dei lettori.

Nel 2009 la consacrazione con la terza opera, Olive Kitteridge, che le è valsa il Pulitzer. Lei, originaria del Maine, a New York ha costruito la distanza necessaria a raccontare con una cura unica, asciuttezza e con empatia paesaggi interiori ed esteriori della provincia americana, scavando dentro esistenze ferite che ritroviamo nell'opera più recente.

Da circa una settimana è stato pubblicato in Italia il suo nuovo libro Tutto è possibile (Einaudi, 205 pagine, 19 euro, traduzione di Susanna Basso), che esplora ancora in una serie di racconti brevi l'ambiguità, la delicatezza della condizione umana e ciò che in fondo ci fa assomigliare all'estraneo: il sogno di essere compresi.


Strout, il personaggio di Charlie Macauley, un reduce per il quale la guerra non è mai finita, incarna il senso di Tutto è possibile e la ricerca che unisce i racconti che lo compongono. Fino a che punto la guerra è una questione privata?
«È vero. Amo Charlie. È privata, penso che lo sia e rimanga tale. Possiamo parlare della guerra, ed è tutt'altro che negativo, ma resta qualcosa di estremamente intimo, perché non è generalizzabile e non appartiene a tutti. Si tratta di un sentimento anche americano spesso ineludibilmente solitario».

Che cosa rappresenta per lei questo tema?
«Il mio interesse è maturato nel tempo. Lo affrontai già quando scrissi Abide with me (Resta con me, Fazi), perché quegli uomini, originari del Maine con tutto ciò che comporta, appena tornati dalla Seconda Guerra Mondiale non parlavano di quella esperienza. E realizzai che seppure non ne parlassero li consumava dentro. Continuando a scriverne, e in effetti il padre di Lucy Barton è un reduce, ho preso coscienza di quei solchi così profondi. A Charlie è toccata una sorte peggiore rispetto ai reduci della Seconda Guerra Mondiale, il Vietnam, perché nessuno voleva crederci. Hanno catturato il mio interesse uomini che vanno in guerra, ritornano a casa, e le ferite di coloro che non possono riprendere più una vita piena. E questo conta, ci coinvolge tutti».

Nel romanzo emerge l'urgenza, che non è pretesa, di essere accolti. Ciò che più impressiona di queste storie è lo stupore per la gentilezza, che giunge inattesa anche da estranei.
«Sì, succede nel romanzo, anche nel silenzio s'instaurano momenti di connessione che è comprensione. Nella domanda c'è veramente il significato del titolo Tutto è possibile, che riguarda quegli istanti di grazia che possono manifestarsi in modo inatteso alle persone che non credono più possa accadere loro. Il desiderio di essere compresi, e la paura di non esserlo, restano universali».

Quale ricchezza narrativa conserva la provincia?
«Ritengo che il mio interesse per la provincia statunitense dipenda soprattutto dall'illusione che coltivano le persone di una piccola città di conoscersi reciprocamente. Non è così, e lo adoro. Camminando lungo la strada principale di una cittadina le stesse persone si salutano da trent'anni senza sapere nulla dell'altro. Oppure sviluppano e sedimentano, spesso senza alcun fondamento, per anni un'idea su chi sia la persona che percorre le stesse strade. L'inconoscibilità in quanto scrittrice deve interessarmi. Il paesaggio interiore e quello esteriore disegnano, conducono al mio mondo: l'idea che ognuno abbia la propria vita ordinaria e poi esista un altro universo, e la mia scrittura è animata dal come interagiscono».

Il mestiere dello scrivere le ha consegnato una definizione soddisfacente di famiglia?
«Giusto, che cos'è una famiglia? Chi può conoscerla? La situazione si fa interessante, poiché non scegliamo la nostra famiglia e lei non ci sceglie, dunque si tratta di un universo di relazioni completamente differente da un'amicizia. Per uno scrittore è semplicemente entusiasmante gettare scompiglio fra il frastagliato mondo delle famiglie americane».

In Tutto è possibile ripropone con forza la questione della frattura e della dinamica fra classi sociali.
«Oggi i poveri sono sempre più poveri, mentre i ricchi sempre più ricchi. Finalmente in seguito all'elezione di Trump si è iniziato a sviluppare un discorso sulla persistenza delle classi e delle sperequazioni sociali, ma negli Stati Uniti è ancora un argomento tabù. Quando ero giovane si pretendeva che non ci fossero classi ed è folle perché sono sempre esistite».

Viviamo circondati da paure antiche e nuove. I suoi personaggi ne manifestano molte. In che modo riesce a esprimere l'incapacità di contestualizzarle ed elaborarle?
«È una questione centrale. A sessantuno compiuti non ho perso la fascinazione dell'ascoltare, dell'osservare e la meraviglia per ciò che anima le persone come la paura. Ora sento di poter comprendere più a fondo le emozioni. Per amare un personaggio, e devo ammettere che i miei li amo un po' tutti, deve suscitarmi un sentimento speciale. Non mi interessa che si comporti bene o metterlo all'indice. Deve trasmettermi quel sentimento, altrimenti non sarà parte del libro. Lo faccio entrando dentro di loro mentre bruciano, sono soli, riesco a scovarlo in qualche modo. Ciò mi fa sentire bene».

Torna Lucy Barton, il memoir col quale ha successo a New York sembra saper accogliere le storie di tutti in una terra che li accomuna, il paesino di Amgash – Illinois.
«La sua voce è particolare. Ho scritto con l'intento di lasciare molto spazio anche ai lettori, aprendo una porta per farli entrare con le proprie storie. Penso che dovrebbe essere sempre così, è un mio compito creare la condizione. Con il libro My name is Lucy Barton (Mi chiamo Lucy Barton, Einaudi) ho cominciato a farlo in modo deliberato».

mercoledì 6 settembre 2017

Johan Cruijff e la reinvenzione dello spazio

di Gabriele Santoro

Johan Cruijff sapeva accendere la fantasia come pochissimi altri. Ogni suo movimento con il pallone, che Nureyev associava alla danza, era totale e produceva un’eco di emozioni che non si è spenta. Esiste un riconoscimento costante per il gioco dell’Ajax forgiato da Rinus Michels, cuore e anima del Calcio Totale, per una civiltà calcistica avanzata che ha sedotto il mondo, segnando non solo la storia dei Paesi Bassi con il vero fine della bellezza.


Non conta soltanto vincere, ma soprattutto come lo si fa. «Correvano e si passavano la palla in un modo insolito, seducente, scorrevano attraverso il campo seguendo traiettorie ricercate, intricate, ipnotiche», scrive David Winner nel bel saggio Brilliant Orange (minimum fax, 362 pagine, 18 euro, traduzione a cura di Fabio Deotto), che è pure un’anatomia della nazione olandese capace del coraggio e dell’ingegno di attrezzarsi per vivere anche sotto al livello del mare.

«Non è un attaccante, ma fa tanti gol. Non è un difensore, ma non perde mai un contrasto. Non è un regista, ma gioca ogni pallone nell’interesse del compagno», diceva Alfredo Di Stefano, la Saeta rubia madridista, a proposito di Cruijff. Lui in un decennio stravolse il calcio olandese, che all’inizio degli anni Sessanta era ancora del tutto amatoriale, grezzo dal punto di vista tattico. Cruijff, all’epoca poco più che un ragazzino con i capelli lunghi, smilzo ma dall’energia incredibile, velocissimo, è stato l’avanguardia, l’icona di una rivoluzione culturale, politica e sociale che trasformò una piccola nazione puritana, austera e calvinista.

Il calcio è un gioco serio ma elegante, sosteneva Vic Buckingham, l’allenatore che preparò il terreno per il Calcio Totale dell’Ajax: trovarsi d’istinto, controllare sempre il possesso della palla, attaccare senza sosta, sentire come squadra un ritmo e suoni comuni. Dopo il grigiore del periodo postbellico, la battaglia contro la noia non era una cosa semplice e Cruijff come Best, figlio di un venditore di frutta e verdura tifosissimo dell’Ajax nonché amico del custode del campo, l’ha combattuta sul rettangolo verde con l’agilità, la sensibilità e lo stile incomparabile che assomigliavano alla gioia.

A venti anni dalla fine della seconda guerra mondiale, la ribellione giovanile con epicentro ad Amsterdam s’incrociò con quella di una generazione, non solo Cruijff, di calciatori dall’attitudine ribelle, dal talento e dalla sostanza straordinari. L’autore ricorda come la giocosità, talvolta surreale, anarchica e teatrale era interpretata da quella generazione come la chiave per un mondo migliore. La felicità della gente che riempiva lo stadio e l’essere acclamati per il proprio stile rappresentavano le vittorie più importanti.

Il nesso tra una rivoluzione culturale e quella calcistica sta negli obiettivi, stavano facendo tutti un’unica cosa in modi diversi. Ciò che unisce quelle due rivoluzioni è l’atteggiamento liberale nei confronti dell’autorità, dice l’autore. Cruijff provocava l’ordine costituito e smantellò la gerarchia del calcio olandese. Il suo individualismo era creativo, di sistema: «Noi olandesi diamo il meglio quando possiamo combinare il sistema con la creatività individuale. Cruijff è il rappresentante principale di questo approccio. Ha ricostruito questo paese dopo la guerra. Credo sia stato l’unico ad aver realmente capito gli anni Sessanta», argomenta il tecnico Louis Van Gaal.

È interessante anche un altro nesso che lo scrittore esplora, quello con l’architettura, lo sviluppo del concetto di città come opera d’arte totale: «Con quasi quarant’anni d’anticipo sulla scuola calcistica dell’Ajax, la Scuola d’architettura di Amsterdam trovò il modo di conciliare la disciplina collettiva con la creatività individuale». Il principio consiste nella correlazione fra i sistemi per un reciproco scambio di influenze al fine della nascita di un sistema unico, complesso. Le costruzioni dovevano essere ariose, efficienti, flessibili ed esteticamente giocose come è stato il sistema dell’Ajax. La flessibilità nell’interpretazione dei ruoli quanto lo scambio delle posizioni erano un ingrediente fondamentale per indossare quella maglia. Era questione d’istinto e memoria dei movimenti: una forma d’arte collaborativa come l’architettura.

Non è un paradosso la ricerca di un equilibrio prettamente offensivo, che partì dalla difesa aggressiva, con l’acquisto del miglior giocatore dell’allora Jugoslavia, l’inflessibile capitano del Partizan Belgrado, il libero Velibor Vasović.

La parola totaalvoetbal, concetto fondato su una nuova teoria di flessibilità spaziale, entrò a far parte del linguaggio olandese non prima del 1974. Termine utilizzato per descrivere il calcio in stile Ajax giocato dalla nazionale olandese nella Coppa del Mondo di quell’anno persa in finale. Dieci anni prima il decano del design olandese Wim Crouwel aveva lanciato il suo studio Total Design.

Dal 1971 per tre anni consecutivi l’Ajax vinse la Coppa dei Campioni. Il pilastro del gioco consisteva nel reinventare lo spazio a disposizione con nuove geometrie, che allargavano l’estensione fin lì percepita del campo stesso. Si trattava dunque di creare e occupare spazio nuovo, sistematizzando i movimenti senza uccidere la creatività. Si rintraccia così l’identificazione con la storia e la geografia dei Paesi Bassi, uno dei territori più affollati e rigidamente organizzati della terra in lotta costante contro l’invasione delle acque. La stessa origine della democrazia olandese risiede nella costruzione cooperativa delle dighe.

Il saggio s’intreccia in modo interessante con la storia novecentesca europea. Winner rievoca la ferita dell’occupazione nazista e del collaborazionismo con la pagina nera della deportazione degli ebrei da Amsterdam. Lo stadio dell’Ajax era vicino ai quartieri con la più forte presenza ebraica della città e la squadra era immersa nella cultura ebraica, avendo un grande seguito fra gli ebrei.

L’Ajax era un esperimento raro per lo sport professionistico di democrazia e di libertà di cui disponevano i giocatori. Era un equilibrio delicato fra responsabilità collettiva, uguaglianza e individualismo che poteva mettere però in discussione la disciplina e la coesione. Una votazione interna, quasi a rifiutare le necessità di una leadership forte, fece perdere la fascia da capitano a Cruijff e sancì il suo addio all’Ajax, destinazione Barcellona dove da calciatore e poi forse più da allenatore riuscì a infondere lo spirito del calcio offensivo.

«Se le persone dicono che il mio Barcellona giocava il calcio più bello al mondo, cos’altro chiedere?».

Cruijff, scomparso poco più di un anno fa a causa del cancro, mostrava l’audacia e il rifiuto proprio di chi crea. Non si limitò a soddisfare la domanda di calcio preesistente, la ricreò su presupposti differenti. Indicò al proprio mondo la possibilità di una sperimentazione estetica. Rese distinguibile la purezza della sua idea di calcio tanto da ingombrare un’eternità.

martedì 22 agosto 2017

In terra d'Africa, gli italiani che colonizzarono l'impero

Il Tascabile


di Gabriele Santoro

«La nuova impostazione teorica faceva dell'impero la massima espressione del regime, in cui replicare il meglio della civiltà della madrepatria portando a compimento, su questo terreno di sperimentazione privo di condizionamenti i progetti totalitari fascisti. In questo grande laboratorio biopolitico, l'uomo nuovo avrebbe dovuto trasferirsi in via definitiva per costruire una società nata dall'emigrazione di massa, ma allo stesso tempo selezionata, priva di tutti gli elementi giudicati inadatti per motivi fisici, politici o morali», scrive Emanuele Ertola, ricercatore e autore di In terra d'Africa. Gli italiani che colonizzarono l'impero (Editori Laterza, 246 pagine, 20 euro), che è anche una storia sociale della colonizzazione.


La recente pubblicazione di questo saggio, che fa affiorare la profonda discrasia tra ciò che era stato idealizzato nella teoria e la prassi della vita quotidiana in Etiopia dopo la guerra di conquista iniziata nell'ottobre del 1935 e conclusa il 5 maggio 1936, è una delle non frequenti occasioni di riflessione sull'esperienza colonialista italiana, sul nostro rapporto con l'immigrazione e la storia del radicamento di modi d'essere razzisti.

Gli italiani con la valigia sognavano sempre l'America, la classe politica fascista prometteva strumentalmente l'Africa per progetti espansionistici, animando e diffondendo un immaginario africano distante da dati di realtà: 

«Una colonizzazione demografica che allegerisca l'esuberanza di popolazione della Madre Patria, che allevii la disoccupazione, che possa dare collocamento a una immigrazione delle classi medie borghesi, come professionisti e dirigenti di aziende, che possa anche riassorbire una parte della nostra emigrazione», usando le parole rivolte da Lessona, Ministro delle Colonie, a Graziani.

Il primo elemento d'interesse è la volontà del regime fascista di regolare con principi classisti l'emigrazione mediante un apparato burocratico in realtà farraginoso e corruttibile. Come osserva Ertola, l'originalità del caso italiano, seguendo la logica fascista del controllo totalitario della società, risiedeva nel tentativo di selezionare fin da prima della partenza il flusso migratorio diretto verso l'impero.

«Non si può ammettere – per dignità nostra e prestigio razziale – che un italiano venga qui “a cercar fortuna”», si leggeva il 22 luglio del 1939 sulle colonne del Corriere dell'Impero, principale mezzo della propaganda in Etiopia. Non andò così. A dispetto dei filtri istituiti, gli emigranti italiani, seppure l'Africa non fosse la destinazione privilegiata, volevano la propria opportunità e si affidarono a traffici illegali, a business criminali pur di varcare la frontiera. 

Venendo all'attualità delle nostre cronache, riemerge dunque una domanda mai evasa: si può arginare il desiderio o la necessità di partire di chi intravede in un altrove un'esistenza migliore? I migranti italiani dell'epoca, esposti per tutti gli anni Venti e Trenta alla propaganda martellante sulla necessaria espansione imperiale dell'Italia fascista che alimentò nella cultura popolare il mito della colonia, partirono o cercarono di farlo per la possibilità di iniziare una nuova vita. Anche la propaganda di guerra, che per voce del regista della campagna, il sottosegretario per la Stampa Alfieri, «aveva dovuto assumere una posizione di vero e proprio combattimento», aveva centrato l'obiettivo di coinvolgere psicologicamente tutto il paese nella lotta e farlo partecipe a essa.

Dal 1815 al 1930 dieci milioni di italiani lasciarono il suolo natio, una marea umana fra i 52 milioni di europei che abbandonarono il Vecchio Continente. La vibrante propaganda fascista in chiave antiemigratoria e nazionalista non modificò sostanzialmente né fermò del tutto l’emigrazione italiana. Anzi Roma era assillata dal venir meno della principale rotta di fuoriuscita per i migranti, quella nordamericana. L’ambivalenza di Mussolini si manifestò nel linguaggio quanto nelle scelte politiche. Per esempio tagliò il bilancio del Commissariato generale dell’emigrazione, di cui l'Italia si era dotata a inizio Novecento, mentre all’ambasciatore a Washington raccomandava di perorare la causa dell’Italia fascista nella speranza che gli Stati Uniti, che avevano chiuso le frontiere, mantenessero un varco più largo per la nostra emigrazione qualificata, questione di prestigio internazionale.

Successivamente l'accordo siglato nel 1937 con la Germania nazista inaugurò poi la pratica, proseguita nell'Italia repubblicana postfascista, dello scambio carbone-manodopera. La manodopera italiana, dai braccianti agricoli agli operai, quantificati in 200mila lavoratori prelevati dalle nostre fabbriche, nell’industria bellica tedesca costituì un serbatoio imprescindibile per l’economia nazista. Non dimentichiamo che dal 1922 al 1938 a causa del fascismo furono 255mila gli italiani espatriati per ragioni politiche.

Il regime fascista era preoccupato di mantenere in essere le vie consolidate della nostra emigrazione. Quest'ultima, senza ammetterlo, restava una valvola di sfogo dei conflitti sociali interni, nonostante la volontà di cancellare l'immagine degradante dell'emigrazione di massa. Dal 1927 il regime intese riorientare il movimento migratorio entro i confini nazionali e le colonie, assorbendo l'eccedenza di forza lavoro con le opere pubbliche. Ertola dimostra quanto l'espansione coloniale fosse connessa all'esigenza di creare sbocchi per l'insediamento di masse di migranti, illustrando la lettura propagandistica che il fascismo produsse di un fenomeno sociale così eterogeneo e inscindibile dalla storia plurisecolare del colonialismo.

La selezione di classe alla partenza era motivata da posizioni massimaliste come questa: «Il coloniale di oggi (…) non è più uno spensierato e spavaldo procreatore d'una progenie di meticci». In realtà la composizione sociale di chi partiva era eterogenea. I coloni erano in larga maggioranza maschi adulti non in età giovanissima, il 90% si installò nelle quattro maggiori città etiopi.

Addis Abeba è stata il cuore di una colonizzazione dal carattere prettamente urbano, attirando gran parte di un flusso migratorio straordinariamente consistente in un breve lasso di tempo. Alla vigilia del secondo conflitto mondiale erano 40mila gli italiani residenti nella capitale su un totale di 166mila nell'intera Africa Orientale.

Ertola utilizza la figura geometrica del rombo per riprodurre la struttura della società coloniale: ai due vertici opposti c'erano una ristretta élite burocratica, militare, imprenditoriale e alla base un proletariato bianco non qualificato di breve permanenza, pochi i contadini, poi la maggioranza di coloni, una multiforme classe media. La solidarietà di razza, propria di un contesto coloniale, non ribaltò la gerarchizzazione e la divisione in classi vissuta in patria. Anzi i poor white erano percepiti dall'élite coloniale come una minaccia per la società dominatrice e per la purezza razziale: erano i più esposti al rischio della degenerazione del  meticciato per la vicinanza con i nativi nei luoghi non esclusivi della città africana.

Un dato quantitativo rilevante nella presenza italiana in Etiopia era quello dei dipendenti pubblici: nel 1940 erano ben 6500, una cifra del tutto sproporzionata, che ha aggravato le difficoltà dello sviluppo economico precario dell'impero, in rapporto agli apparati burocratici delle altre colonie. Quello del governo italiano, dotatosi di una macchina burocratica che non funzionava, era secondo i coloni «un amore che soffoca» con la sua iper-regolamentazione. Chi giungeva con capitali si scontrava con la sostanziale impossibilità dell'iniziativa privata. A causa della corruzione dilagante molti italiani d'Etiopia riformularono l'acronimo AOI in Affari Onesti Impossibili. Coloro che volevano lavorare, senza essere una grande società o parte di un gruppo industriale, dovevano oliare il sistema:

«(...) Pagare pedaggi a ogni piè sospinto. Ogni funzionario vi fa laggiù chiaramente capire che se non lo compensate, non vi fa avere il permesso che vi abbisogna», da una fonte citata in un rapporto della polizia politica.