mercoledì 31 ottobre 2012

E non finisce mica il cielo...Una fondazione per Mia Martini

Il Messaggero, sezione Cultura & Spettacoli pag. 27,
31 ottobre 2012

di Gabriele Santoro

di Gabriele Santoro 

ROMA – La voce di Leda Bertè si incrina per l’emozione appena pronuncia il nome della sorella Mia Martini, ma subito dopo mostra la determinazione di chi ha deciso di farsi carico di una storia dolorosa e di un patrimonio artistico prezioso da preservare mediante la nascita della Fondazione Mia Martini. «Stiamo catalogando un tesoro culturale - spiega - intendiamo rivalutare la figura di donna e di grande artista qual era Mimì». La neonata struttura, oltre alla creazione di un archivio permanente che restituirà luminosità alla vita di un’interprete unica della musica italiana, promuoverà giovani cantanti emergenti e sosterrà il progetto Ipazia 2.0 contro la violenza sulle donne. Un percorso che per il momento non è condiviso da tutta la famiglia: «Loredana prima era d’accordo - prosegue Leda -, poi ci ha ripensato». Dalle parole di Vincenzo Palladino, direttore della Fondazione, emerge anche la volontà di riaccendere una luce sulla tragica fine della cantante calabrese: «Stiamo raccogliendo elementi da sottoporre all’attenzione degli inquirenti per consentire una riapertura delle indagini. Vogliamo scoprire chi la uccise».

http://www.fondazionemiamartini.it/

martedì 30 ottobre 2012

Il giornalismo Gonzo di Gabriela Wiener



di Gabriele Santoro

ROMA – Gabriela Wiener rifiuta la nozione giornalistica della giusta distanza. Per raccontare una storia non si accontenta di esserne l’imparziale osservatrice esterna. Ha bisogno di calarsi pienamente nelle vicende, fino a diventarne coprotagonista, senza tuttavia smarrire uno sguardo critico sui fatti. Per scrivere deve provare emozioni, dolore o piacere come in un’esperienza corporea che coinvolge lo spirito. 

Le interviste della trentasettenne cronista peruviana eludono il compromesso formale che d’abitudine s’instaura con l’interlocutore e creano una complicità promiscua. Nei suoi reportage avventurosi non si limita a fotografare la realtà, ma la pone sotto una luce personale. Varca senza tentennamenti il confine della classica inchiesta giornalistica, per fare letteratura. La penna non smarrisce mai il tocco leggero dell’ironia e quello tagliente del sarcasmo, di chi sa non prendersi troppo sul serio.

«Non si può dire che io sia una persona grassa - dice -, ma non si può neanche dire che sia una salutista: mi ubriaco una volta a settimana e spesso mangio cibo spazzatura. E questa condizione l’ho portata avanti per tutti questi anni con orgoglio, mi fa sentire viva e vitale. L’unica parte del mio corpo che si mantiene in forma sono le dita che battono sulla tastiera». Le sue pagine trasmettono un'inquieta voglia di vivere e quella sana incoscienza che è una buona consigliera.

È complicato catalogare gli argomenti di cui si occupa. Lei si presenta così: «Sono una giornalista specializzata nel ficcare il naso ovunque e scrivere in prima persona di esperienze estreme». Esplora l’umanità allegra e sofferente, partendo dall’urgenza di saziare la fame di conoscenza di se stessa. Dagli esordi professionali sulla rivista peruviana Etiqueta negra, ora è approdata a Madrid in qualità di caporedattrice del magazine femminile Marie Claire. «All’inizio era impossibile proporre le mie storie ai grandi quotidiani - spiega -. Trovavo spazio solo nelle riviste indipendenti. Ora sono entrata nel sistema, ma tento di rompere gli schemi e cambiare i modelli stereotipati con cui definiamo le donne».

I lettori italiani possono scoprirla grazie alla casa editrice La Nuova frontiera che ha pubblicato il suo secondo libro Corpo a corpo, storie di giornalismo gonzo (traduzione di Francesca Bianchi, 254 pp, 13 euro). Si tratta di una raccolta di una decina di cronicas firmate da Wiener. Affronta i temi della sessualità, dell'erotismo femminile e della pornografia senza false sfumature e smonta le finte perfezioni. «I miei scritti non provocano eccitazione, ma divertono e sono uno strumento critico per la nostra società». Per descrivere e comprendere il mondo del sadomaso, su commissione di una rivista, non ha esitato a farsi sculacciare, davanti a un pubblico in visibilio, dalla mistress Lady Monique al Club Bizarre di Barcellona.

Lei, sposata e mamma della piccola Lena, restituisce anche il profondo desiderio di maternità delle donne ricoverate in una clinica catalana in attesa della fecondazione assistita. E si sottopone al bombardamento ormonale per rendersi donatrice di ovociti e sentirsi «la persona più altruista sulla faccia della terra». A Parigi percorre i vicoli bui e gelidi del parco Bois de Boulogne con la trans Vanesa che ogni notte vende un pezzo di esistenza. Si mimetizza nei micro cosmi del carcere di massima sicurezza di Lurigancho (distretto di Lima) per incontrare i detenuti più pericolosi del Paese e in fondo ci svela la sua passione: «Leggere i corpi. Scegliere quale pelle leggere, perché i geroglifici delle cicatrici raccontano storie».

sabato 27 ottobre 2012

La resistibile ascesa di Mussolini. Vivarelli: «Abile a disfarsi di avversari di scarsa caratura»

Il Messaggero, sezione Cultura & Spettacoli pag. 25 con richiamo in prima pagina,
27 ottobre 2012

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

«CONSIDERO il completamento della mia opera come una promessa mantenuta con chi mi avviò e spronò negli studi». Roberto Vivarelli, ottantaquattrenne professore emerito di storia contemporanea alla Scuola Normale di Pisa, annuncia così il terzo volume della trilogia Storia delle origini del fascismo (Il Mulino, 548 pagine, 36 euro). Lo storico ripercorre il biennio, dall’autunno del 1920 al 1922, in cui l’Italia scivolò verso la dittatura, sostenendo una tesi di fondo: «Il fascismo non fu la causa della crisi dello Stato liberale, bensì il frutto».

Vivarelli, con la sua ultima pubblicazione ha concluso un lungo percorso di ricerca e ricostruzione delle origini del fascismo. Quali elementi analizza in questa occasione?
«È l’epilogo di un lavoro complesso iniziato molti anni fa. Analizzo il vuoto politico apertosi con le elezioni del 1919 e chiusosi con l’avvento al potere di Mussolini. La crisi dello Stato liberale ebbe radici profonde, che affondano soprattutto negli esiti della Prima Guerra mondiale. Un fattore fondamentale che approfondisco in queste pagine è l’incapacità atavica delle nostre istituzioni di creare un sentimento di appartenenza e identità nazionale».


Come si spianò la strada alla dittatura?
«Il fascismo godette del sostegno economico degli agrari e in parte degli industriali. Ma in realtà c’era una richiesta di sicurezza sociale e di un governo che restituisse stabilità al sistema. Mussolini approfittò della situazione di stallo creatasi dopo il voto del 1919, presentandosi come la persona in grado di sciogliere il nodo. Dimostrò un’abilità, nel disfarsi degli avversari politici, in verità di scarsa caratura. Do un giudizio assai poco indulgente sulla sua figura. In sostanza mi sembra un cinico, opportunista, per molti aspetti spregevole nella gestione del potere nell’arco del ventennio».

Domani ricorre il novantesimo anniversario della Marcia su Roma.

«Che rappresenta di per sé una leggenda. I fascisti non conquistarono così la città, fu una sfilata. Nessuno di loro entrò prima che Mussolini ricevesse l’incarico di formare l’esecutivo».

Il libro, oltre ad Anna compagna della sua vita, è dedicato a Federico Chabod e a Gaetano Salvemini. Come influirono nella sua formazione?
«Nel novembre del 1956 arrivai all’Istituto Croce di Napoli, molto incerto su cosa volessi e potessi fare. In un primo momento incontrai il maestro Chabod e poi mi incoraggiò Salvemini, che frequentai regolarmente nel suo ultimo anno di vita a Capo di Sorrento. Mi donò molte delle sue carte relative alla storia del fascismo. Lo studio mi appassionò, fu lo stimolo a produrre un senso critico sulla cosa pubblica».

L’attuale quadro politico nazionale si presenta estremamente frammentato e magmatico con un profondo smarrimento dell’elettorato. Secondo lei si possono rintracciare analogie con il passato?

«Sono sempre molto cauto nello stabilire parallelismi. Come allora, però, emerge l’incapacità della società italiana di formare una classe dirigente credibile, capace di guidare un Paese moderno. Il contesto è diverso, ma anche oggi ci troviamo di fronte al fallimento e a un vuoto di rappresentanza della politica».

mercoledì 24 ottobre 2012

L'alchimia da bestseller di Marcello Simoni

Il Messaggero, sezione Cultura & Spettacoli pag. 21,
24 ottobre 2012

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

DOPO il boom da esordiente con Il Mercante di libri maledetti, Marcello Simoni prova a ripetersi con La biblioteca perduta dell’alchimista (9,90 euro, disponibile anche l’e-book a 4,99 euro, 336 pagine), secondo episodio di una trilogia sulla quale puntò due anni fa la casa editrice Newton Compton. Il trentaseienne scrittore comacchiese, ex archeologo e medievalista appassionato, propone un nuovo thriller medievale con le indagini avventurose del mercante di reliquie Ignazio da Toledo che scaturiscono dal ritrovamento del libro Turba philosophorum, custode dell’espediente alchemico più ambito al mondo.

Simoni inserisce gli elementi della fiction narrativa in un’ambientazione storica autentica e cavalca l’interesse ritrovato per l’Età di Mezzo. «Che - sottolinea l’autore - non è una sacca di secoli bui come spesso viene dipinta. È il periodo in cui nascono le università, i Comuni e comincia a diffondersi uno spirito civico. Senza dimenticare il lavoro fondamentale degli Amanuensi».

Il suo primo libro, Il Mercante di libri maledetti, ha rappresentato un caso letterario: oltre trecentomila copie vendute, tradotto in undici lingue e attualmente presente nella top ten in diversi paesi europei. Come vive l’attesa per la seconda opera appena pubblicata?

«Non avverto l’ansia da prestazione. Preferisco viverla senza aspettative e spero di stupirmi come è avvenuto la prima volta».

In che modo ha stregato i lettori?

«Non dispongo di formule magiche: è stata una sorpresa anche per me. Dopo gli studi universitari (laurea in Lettere moderne con una tesi sull’archeologia di Comacchio, ndr) mi ero limitato a scrivere saggi, in cui puoi permetterti di essere un pò noioso. La mia invece è una narrativa popolare che si rivolge al grande pubblico e vuole intrattenere senza pretese di indottrinamento. Considero il mio romanzo storico una sorta di gioco di prestigio, in cui la fantasia si fonde con la ricerca basata su fonti storiografiche fino ad apparire verosimile».

Il successo ha rivoluzionato la sua vita?

«Continuo a fare il bibliotecario, ma mi sento immerso in un viaggio che mi ha reso una persona migliore. Ho iniziato a girare per l’Italia e in Europa come non avevo mai fatto prima. Ora ho un approccio più professionale alla mia creatività».

Nel suo paese, Comacchio, che reazione c’è stata? Viene citato anche nella pagina Wiki della Piccola Venezia.

«Ormai quando vado in centro o all’edicola a cinquanta metri da casa con la bicicletta mi fermano sempre. Rappresentare la mia comunità è una sensazione piacevolissima».

Qual è il suo rapporto con i social network?

«Sono molto attivo su Facebook. Da pochi amici intimi ora ho toccato quasi quota duemila. Tra i lettori si alimentano discussioni anche accese ed è il modo più efficace per interagire a distanza. Ma mi hanno arricchito anche gli incontri avuti durante le tantissime presentazioni del libro. Mi ha stupito l’interesse per la storia medievale, che a scuola viene un pò trascurata, soprattutto tra i giovani dai 18 ai 25 anni che nella Rete hanno una sponda e un contenitore in cui pescare molto materiale».

Quanto l’ha sorpresa la consacrazione quasi unanime che ha ottenuto nell’ultima edizione del Premio Bancarella?
«Ero già felice di figurare nella sestina. Si prova una certa adrenalina, ma si respirava un clima sereno tra i finalisti. Ho conosciuto una bella persona come Bjorn Larsson e un maestro come Marco Buticchi. Vincere con uno scarto così importante è stata un’emozione inaspettata. Credo che i premi letterari possano ancora promuovere le novità e aprire spazi importanti».

Quali imprese attendono il suo protagonista, Ignazio da Toledo, in questo episodio della trilogia?

«Si tratta di un thriller con un’ambientazione gotica tra la Spagna e il sud della Francia. I fatti narrati si svolgono nel decennio successivo (1227) a Il Mercante di libri maledetti. Stavolta il mozarabo Ignazio da Toledo viene chiamato dal Re di Castiglia Ferdinando III per ricercare la regina Bianca di Castiglia, reggente di Francia, rapita dall’alchimista Conte di Nigredo. Il volume è suddiviso in quattro capitoli, ognuno associato a un colore base della trasmutazione alchemica. In apertura cito anche un manoscritto attribuito a Comario e Cleopatra, che secondo la leggenda fu una delle prime alchimiste».

Come ha costruito il suo Sherlock Holmes medievale?
«In quest’epoca o nel Rinascimento non esisteva la figura dell’investigatore. Ignazio da Toledo è di conseguenza un personaggio inventato. Un Ulisse medievale, un inguaribile cercatore di misteri. Non mi volevo accontentare del solito monaco o cavaliere: Ignazio da Toledo incarna un ceto medio dinamico ed emergente».

Nell’intreccio narrativo risulta determinante la presenza di un libro sull’alchimia
.
«L’alchimia medievale è qualcosa di particolare e si differenzia da quella rinascimentale. Nel 1200 non viene ancora riconosciuta come forma eretica, in quanto spingerebbe l’uomo a farsi Dio volendo trasmutare la materia. In questo periodo si traduce una grande mole di documenti che proviene dall’Oriente e che fa riferimento all’alchimia greca ed egiziana. In questa rientra il Turba philosophorum, che ho studiato ed interpretato, cercato da Ignazio da Toledo, perché può aiutarlo a portare a compimento la pericolosa missione».