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di Gabriele Santoro
ROMA – Ora è ufficiale: dopo mesi di serrati e infruttuosi tentativi di accordo sul rinnovo del contratto collettivo dei giocatori non parte l’Nba. Le ultime sette ore di trattative non sono bastate a superare «il golfo che ci separa», come sintetizza il commissioner Stern, e sono state cancellate le prime cento partite della stagione ai nastri di partenza il primo novembre. Solo per la vendita dei biglietti (17mila la presenza media di persone preventivata) si calcola una perdita di oltre 83 milioni di dollari (il taglio della prestagione ha fatto segnare un rosso da 200 milioni). I giocatori non percepiranno compensi complessivi di 350 milioni di dollari per ogni mese di serrata. Senza dimenticare la ricaduta occupazionale sull’indotto del “circus” Nba dai ristoranti e negozi interni alle arene agli addetti alla sicurezza.L’annuncio di David Stern, rappresentante dei proprietari. «Sono triste nel comunicarvi che non si disputeranno le prime due settimane del nostro campionato. È l’epilogo che abbiamo cercato di evitare fin dall’inizio. Le parti in causa hanno lavorato duro per avvicinare le posizioni, ma le distanze sono rimaste immutate. La nostra proposta è equa e credo che anche molti giocatori ne siano convinti».
«Eravamo consci che si arrivasse a questa situazione. Qui non si tratta di un problema di dollari, ma dell’intera ristrutturazione del sistema Nba», ha commentato Derek Fisher, play dei Lakers e leader del sindacato. Dietro alle stelle c'è anche la fortissima pressione a non cedere delle agenzie che li rappresentano e trattano i loro ingaggi.
«Tutti aspettano che saremo noi a cedere e che il fronte dei giocatori si possa spaccare al primo o secondo assegno mensile che non arriva. Ma non succederà. Siamo reduci dall’annata più ricca (4.2 miliardi di incassi) e spettacolare della storia Nba e sarebbe una follia uccidere l’intera stagione. Nell’attuale situazione di crisi economica la Lega recupererebbe difficilmente i mancati ricavi», ha detto Billy Hunter, direttore esecutivo dell'associazione dei giocatori.
Il tetto salariale e la spartizione degli introiti sono gli scogli principali su cui si sta arenando la Lega sportiva più globale. Le riunioni fiume del weekend hanno avuto al centro soprattutto la prima questione. I proprietari vogliono tagliare i super ingaggi, aumentare la cosiddetta tassa sul lusso, che punisce le franchigie che sforano il tetto massimo degli ingaggi (nelle intenzioni pari a 62 milioni di dollari), e ridurre la durata massima dei contratti dagli attuali sei e cinque anni a quattro e tre. Sono arrivate alcune aperture sui contratti garantiti e un accordo sembrava vicino sui contratti fissi definiti “mid-level exception” (da 5.8 milioni per anno a 3), ovvero la possibilità per i club di ingaggiare giocatori liberi e di non conteggiare la spesa nel tetto salariale.
Per quanto riguarda la divisione dei ricavi nessuno si è mosso dalle proprie posizioni. I proprietari si sono spinti a offrire il 50% (all’inizio chiedevano alle stelle di scendere dal 57% al 47%), mentre il sindacato dei giocatori ha confermato l’ultima offerta del 53% a 47% in loro favore. In ballo ci sono circa centoventi milioni di differenza per il primo anno dell’accordo collettivo.
Le tappe della vicenda. L’allarme rosso è scattato ufficialmente il 30 giugno alla scadenza del precedente contratto collettivo con l’annuncio della serrata da parte dei proprietari. Alle franchigie non tornano i conti: perdite totali dichiarate per 300 milioni di dollari e solo 8 squadre con il bilancio in attivo. Durante l’estate non sono stati fatti passi in avanti con il risultato della cancellazione della prestagione. Oggi siamo esattamente nella situazione di tredici anni fa, quando il campionato fu ridotto dalle classiche ottantadue a cinquanta partite, senza alcuna certezza di rivedere a breve Bryant e soci in azione.
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